mercoledì 26 novembre 2014

Al Pd e alla politica italiana un po' di cultura radicale, nel senso del Partito, servirebbe davvero

Due o tre anni fa Pannella e i radicali - mentre tutto il mondo politico-parlamentare italiano discuteva di modifica alla legge elettorale, il già allora odiato Porcellum - continuavano a ripetere a chiunque che c'è un principio, ormai sancito anche dalle istituzioni europee: è bene non cambiare la legge elettorale in prossimità del voto.
Il principio è stato stabilito da un documento che si chiama "Codice di buona condotta in materia elettorale", dove si dice tra l'altro che "gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione". 
A chi dunque chiede un giorno sì e uno no a Renzi  e ai suoi collaboratori perché abbiano tutta questa fretta di cambiare la legge elettorale, basterebbe rispondere con questo ovvio principio: è bene che le leggi elettorali si cambino lontano dal voto, anche per assicurare quella "stabilità" della legge elettorale che vuol dire consentire ai cittadini di capire bene come si andrà a votare ed ai candidati e ai partiti di capire bene come la legge elettorale "nuova" funziona. Dunque: non solo non vogliamo andare a votare nel 2015, ma vogliamo cambiare la legge ora perché ora ci chiede di farlo l'Europa, diciamo.
Ovviamente quel Codice non è legge scritta sulle tavole, e i costituzionalisti ne discutono. Ma perlomeno è un argomento un po' più evoluto di "è bene farlo perché lo chiedono i cittadini che ci hanno dato il 41 per cento".

Invece Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, intervistato oggi dal Sole 24 Ore, ha dovuto rispondere alla domanda: non è che avete fretta di fare la legge elettorale per andare al voto? Ed ha risposto che ovviamente non vogliono andare al voto. Poi ha detto: "E' immaginabile fare una legge elettorale che non muova da interessi particolari a fine legislatura? Non credo. La politica deve onorare l'impegno preso più volte coni cittadini e davanti al Parlamento: tutti i partiti hanno riconosciuto all'inizio di questa legislatura e ben prima della bocciatura della Consulta che la legge elettorale era uno dei mali da correggere. Ora ci sono le condizioni per fare la riforma, e la politica ha il dovere di farla". 


Guerini insomma l'ha messa sul pratico, su cosa conviene fare per il bene di tutti, a partire dal famoso "impegno preso con i cittadini". 

Avrebbe fatto bene, secondo me, lui e tutto il Pd, ad imparare un po' dai radicali di Pannella, che preferiscono parlare con il diritto, le norme, i principi. Al di là dell'impegno e dei "doveri" della politica c'è il diritto, innanzitutto. E partire da quello aiuta sempre, e consente di evitare sciocchezze. Se anche i giornalisti e i diffidenti conoscessero il Codice di buona condotta in materia elettorale, e leggessero di più quel che dicono i radicali, potrebbero tra l'altro "usare a loro volta gli argomenti del diritto, per diffidare Renzi dall'andare alle urne nella primavera del 2015 o semplicemente per fargli domande che non siano sempre le stesse. 

mercoledì 19 novembre 2014

"Una donna uccisa ogni due giorni"

Poiché immancabilmente si legge - a partire dalle ultime elaborazioni di Eures - che in Italia c'è "una donna uccisa ogni due giorni", siamo andati a leggere i numeri.
Eccoli (grazie a Public Policy): in Italia nel 2013 sono state uccise poco più di 500 persone. Di queste, 179 erano donne. Quanto a numero di morti è il numero più basso in assoluto. Quanto a numero di donne, non è il più basso in assoluto ma - per esempio - ci sono stati anni anche molto peggiori. Il 2000 per esempio (199 donne uccise) o il 2003 (sempre 199). E' vero che essendo diminuito il numero generale delle vittime, l'incidenza delle donne sul totale è più alta: il 35 per cento.
In ogni caso è vero che una donna ogni due giorni viene uccisa.
Femicide - termine anglosassone - dovrebbe voler dire che si uccide una donna in quanto donna.
Se una donna viene uccisa in una rapina, o in altro contesto estraneo, non dovrebbe essere "femminicidio". Eures giustamente distingue a questo punto i numeri e spiega che le donne uccise in famiglia, nel 2013, sono state 122. Già siamo a una donna ogni tre giorni.
Ma sicuramente si dovrebbe andare più a fondo, e capire le ragioni di questi omicidi in famiglia.
Se uccido la mamma per i soldi commetto femminicidio? Se uccido la nonna perché non mi faceva sentire la musica ad alto volume, commetto femmincidio? Un aumento signficativo di "femmincidi" secondo Eures si è verificato nella fascia d'età della vittima superiore a 64 anni, mentre sono drasticamente diminuite le percentuali di "femminicidi" di donne fino a 44 anni.
Numeri più piccoli, ma comunque da citare, sono quelli che riguardano le donne vittime di "femminicidio" uccise da donne: nel 2013 sono state nove le donne autori di omicidi di donne in contesti famigliari: in 3 casi la figlia, in due la madre, in uno la coniuge o convivente.
Insomma: i numeri vanno sempre guardati con attenzione. Sicuramente negli ultimi dieci anni sono diminuiti gli omicidi in generale e non sono diminuiti allo stesso modo quelli di donne. Questo è un fatto. Ma se si togliessero le etichette e i titoli ad effetto forse si capirebbe anche qualcosa in più.

martedì 18 novembre 2014

Tassare la casa per pagare la sanità

I laburisti britannici stanno conducendo una campagna elettorale in gran parte dedicata alla "difesa" del sistema sanitario nazionale (NHS), che considerano "sotto attacco" da parte del partito di Cameron.
La scelta di fare della difesa del NHS un punto cruciale della loro campagna elettorale è stata criticata dall'Economist, perché - dice il settimanale - continuare a difendere il sistema così com'è, anche se costa molto di più che in passato - vuol dire rimandare le necessarie riforme al momento in cui non sarà più sostenibile. 
Ma i laburisti pensano, forse a ragione, che difendere una delle cose cui i britannici sono giustamente legati è cosa necessaria.
Per questo arrivano a proporre una "patrimoniale", come la chiamerebbero i dilettanti allo sbaraglio che fanno politica in Italia. Ovvero una tassa piuttosto pesante sulle case di lusso, quelle che valgono più di 2 milioni di sterline. 
La cosa significativa è che - secondo le stime - queste case sono in Gran Bretagna circa 100 mila. E che dalla tassazione su queste case i laburisti contano di ricavare 1,2 miliardi di sterline. Il che significa 12 mila sterline per ciascuna casa, in media, con una applicazione progressiva dell'imposta che penalizzerebbe di più i proprietari di case del valore di oltre 3 milioni di sterline. 
In Italia, secondo recentissimi dati di Confedilizia, le case A1, ovvero quelle che continuano a pagare l'Ici, sono poco meno di 24 mila.
A queste vanno aggiunte le case di categoria A8 e A9, ovvero le ville e i castelli. In totale le case A1, A8 e A9, almeno nel 2012, erano meno poco più di 70 mila. 
E sicuramente la loro rendita catastale non sarà all'altezza di quella britannica. Un anno Berlusconi disse che aveva pagato di Ici 300 mila euro. Sicuramente l'ex Cav è proprietario di Palazzo Grazioli, di almeno sei ville tra Macherio, Arcore, Portofino, Cernobbio. Solo in quanto a ville in Italia, ne sono state censite almeno 11. A questi vanno sommati i molti appartamenti. A occhio e croce, con la Mansion tax britannica, gli sarebbe toccato pagare di più. 
Insomma: l'impressione è che - nonostante revisioni del catasto molte volte annunciate - in Italia anche questa ricchezza sia molto sottostimata, e che tutto sommato la casa non sia così tanto tassata come spesso ci ripetono. Senza contare che 73 mila case di lusso in Italia sembrano poche. 
L'impressione è anche che - nonostante ci sia l'Ukip, la crisi, il populismo anche lì - i laburisti inglesi non abbiano paura di chiedere più tasse ad alcuni per pagare qualcosa che serve e che funziona. 


venerdì 14 novembre 2014

Looking for a narrative

"The  language  of the left is a very humble one – living in a shadow of the rhetoric of those  who like comparing social democracy of this region with the former communist parties. There  is a need  for progressives to construct its own distinctive narrative, which would not borrow concepts  from liberalism and which would let people identify themselves with in terms of social discourse".

La citazione viene da un seminario organizzato dalla Feps, ovvero la Federazione dei partiti progressisti europei. Insieme alla Feps, ad organizzare erano anche il Demos, un think tank lituano, e l'austriaco Renner Institut
Il seminario si è tenuto in Lituania a metà  ottobre, ed è pieno di spunti e di riflessioni sul futuro del welfare europeo e su quel che dovrebbero fare i partiti socialisti. Il documento potrà sorprendere una classe intellettuale e giornalistica come quella italiana convinta che il mondo finisca con Fassina, Renzi e Grillo. Gli atti veri e propri saranno pronti a dicembre, ma la sintesi che viene offerta sul sito è comunque interessante

Si scopre - per così dire - che il dibattito tra "insiders e outsiders" nel mondo del lavoro riguarda tutti - e non solo l'Italia. Che il problema della tassazione del lavoro e di quella delle rendite finanziarie è un tema europeo e non solo dell'Italia dell'evasione fiscale. Che si parla di "politiche di centro destra" condotte da governi di centro sinistra in rifermento alla "austerità", evidentemente tema comune a noi e ad altri, persino in Lituania. 
E che - appunto - la sinistra europea dovrebbe ritrovare una sua propria "narrazione", non solo liberale e non comunista, per parlare al suo proprio popolo. Tante cose. 
Una la potrebbe dire Renzi, una Fassina, una Camusso. 

Ps: Per i giornalisti italiani, la Feps è quella presieduta da D'Alema, il posto in cui lavora quando ama rispondere che lui un lavoro ce l'ha. Magari però evitate di scrivere che "D'Alema dà ragione" a Renzi, o a Fassina, o a Camusso. Lui al seminario lituano non c'era (e neppure Renzi, Fassina, Camusso). 

martedì 4 novembre 2014

Articolo 18, per sapere di cosa si parla

A beneficio di tutti quelli che parlano di lavoro e di articolo 18 senza conoscere bene la materia, un piccolo riepilogo
1 - Quando si parla di articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ci si riferisce ai licenziamenti individuali e in particolare alla reintegrazione nel posto di lavoro per caso di licenziamento nullo o illegittimo. Lo Statuto - in questo articolo - è stato già modificato dalla legge Fornero. 
2 - Proprio la legge Fornero prevedeva un monitoraggio e una valutazione della riforma, anche su questo punto, di cui nessuno si è occupato da quando il tema è tornato ad agitare le cronache politiche. Questo monitoraggio è o dovrebbe esser fatto dal Ministero del lavoro. 
3 - Qualche giorno fa - come ha meritoriamente scritto l'agenzia Public policy - in Commissione lavoro della Camera, per una interrogazione del deputato Pd Baruffi, qualche numero è venuto fuori. Lo ha fornito il sottosegretario al lavoro Cassano
4 - Da questi numeri si evince che nel 2013 sono state licenziate per giustificati motivi oggettivi 720 mila persone. Non si tratta qui dei licenziamenti collettivi, quelli - per capirci - che toccano oggi Alitalia o Ast o aziende in crisi. No. Si tratta di tutti i licenziamenti individuali che ci sono stati nel 2013 per giustificati motivi oggettivi, ovvero perché l'azienda era in crisi e doveva licenziare, non c'era più spazio per la mansione del dipendente, l'azienda ha cessato l'attività. Insomma: l'azienda chiude, o non fa più le cose cui era adibito quel lavoratore, o non può più permettersi di tenere quel lavoratore. 
5 - Nella risposta si spiega anche che nei casi di licenziamento per motivo oggettivo intimati dalle imprese con più di 15 dipendenti - che dopo la legge Fornero passano per una conciliazione preventiva obbligatoria - le procedure di conciliazione sono state 10000 per semestre. Sarebbero circa 8500 per il primo semestre del 2014. Dice il governo che gli "esiti positivi", ovvero di vertenze risoltesi con una transazione o con la rinuncia al licenziamento sono circa il 50 per cento. Nella tabella allegata poi si chiarisce meglio che la stragrande maggioranza di questi 4 o 5 mila casi all'anno si risolvono per accordo economico. E che solo in 428 casi nel primo semestre del 2014 il datore di lavoro ha rinunciato al licenziamento  
6 - Come è evidente, su 720 mila persone circa 10 mila licenziamenti sono oggetto della questione. Per il resto è altrettanto evidente che licenziare si può benissimo, e che il problema dell'articolo 18 è molto relativo. 
7 - Dagli stessi numeri si evince che circa 20 mila sono stati i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo. Erano stati 25 mila nel 2012. Questi sono i licenziamenti cosiddetti "disciplinari": se un lavoratore mette in atto comportamenti disciplinarmente rilevanti, il datore di lavoro può licenziarlo. Si tratta dei licenziamenti che avrebbero bisogno - secondo Renzi e il Pd - di una maggiore precisione normativa nei decreti della legge Delega. I dati del ministero dicono che giacciono davanti ai tribunali e alle corti d'appello italiane circa 27 mila procedimenti per tutti i tipi di licenziamento. Per quelli "disciplinari" sono circa 4000. Sono di più quelli per "giusta causa", per esempio. 
8 - Infatti, ci sono stati 73 mila licenziamenti per giusta causa nel 2013, contro i circa 86 mila del 2012. Questi sono i licenziamenti in cui un lavoratore - a giudizio del datore di lavoro - fa una cosa talmente grave da non consentire il proseguimento del rapporto. Si licenzia senza preavviso, in questo caso. Nel 2012 - dice ancora il governo, i casi finiti in tribunale di licenziamenti per giusta causa e terminati con una sentenza erano poco più di 2800. Nel 33 per cento dei casi l'istanza del lavoratore contro il licenziamento è stata respinta, nel 35 per cento dei casi accolta totalmente, nel 16 per cento dei casi accolta parzialmente. Nello stesso anno, i casi finiti in tribunale e terminati con un decreto o una ordinanza erano oltre 4000. Il 65 per cento di questi casi si è concluso con una conciliazione. Anche questi sono licenziamenti "disciplinari", su cui è intervenuta la legge Fornero. 
8 - Il governo dice anche che "nel 2013 più della metà delle controversie in materia di licenziamento risulta definito in via conciliativa". Anche qui, basta vedere le tabelle: tra i licenziamenti "economici" individuali e quelli "disciplinari", pure individuali, ci sono circa 7000 casi. Di questi, oltre 4000 sono risolti con la conciliazione. 
In sintesi dunque: licenziare non è così difficile. Non è vero che è il rapporto di lavoro è inscindibile peggio del matrimonio. Nella maggior parte dei casi si risolve con una conciliazione. I licenziamenti "disciplinari" sono nella maggior parte risolti  con conciliazione. E comunque non sembrano un gran problema. Semmai sono molti di più quelli per giustificato motivo oggettivo, su cui ormai tutti sono d'accordo. 
Aspettare magari i numeri del monitoraggio non sarebbe stato meglio, invece che fare tutto questo casino?