lunedì 1 dicembre 2014

Occupati, disoccupati, inattivi: quel che Renzi non dice

Renzi dice nella direzione Pd che sarebbe molto interessante parlare dei dati Istat sull'occupazione. Poi elenca qualche cifra a caso, e passa ad altro. E' per dire - probabilmente - che lui conosce bene i dati e sa che lo slogan "abbiamo creato 400 mila posti di lavoro" è vero, solo che "non riusciamo a spiegarlo al Paese".
Il fatto è che non è proprio così.

I dati Istat dicono che

1) continua a decrescere il numero degli occupati a tempo pieno. Sono 68 mila in meno nel terzo trimestre 2014 rispetto al corrispondente trimestre del 2013.

2) salgono gli occupati a tempo parziale, "a ritmi sostenuti", dice l'Istat: + 4,9 per cento. Nella maggioranza dei casi non sono part time scelti ma casi di quello che le statistiche chiamano "part time involontario". Neppure l'ars oratoria di Renzi potrà spiegarlo come una cosa buona.

3) crescono i dipendenti a termine e i collaboratori: + 6,7 per cento e + 5 per cento rispettivamente.

4) cresce il tasso di disoccupazione. Renzi dice - come per spiegare ai bambini quel che lui sa ma che il suo governo "non riesce a spiegare" - che dipende dal fatto che le persone "ci credono di più., e quindi tornano ad iscriversi alle liste di collocamento", ché evidentemente con Letta non lo facevano. In realtà i dati dicono che diminuiscono gli "inattivi", (quelli che non ci credono più in linguaggio statistico) tra i 55-64 enni, e soprattutto tra le donne. Probabile che siano quelli che hanno perso il lavoro, e che si rimettono a cercarlo, o quelli cui è scaduto il contratto a termine.

5) Come ha già notato Claudio Cerasa su Twitter,
gli occupati secondo i dati Istat crescono molto di più tra gli immigrati che tra gli italiani. Il tasso di occupazione tra i lavoratori immigrati è cresciuto di 128 mila unità, contro una occupazione italiana sostanzialmente stabile.

mercoledì 26 novembre 2014

Al Pd e alla politica italiana un po' di cultura radicale, nel senso del Partito, servirebbe davvero

Due o tre anni fa Pannella e i radicali - mentre tutto il mondo politico-parlamentare italiano discuteva di modifica alla legge elettorale, il già allora odiato Porcellum - continuavano a ripetere a chiunque che c'è un principio, ormai sancito anche dalle istituzioni europee: è bene non cambiare la legge elettorale in prossimità del voto.
Il principio è stato stabilito da un documento che si chiama "Codice di buona condotta in materia elettorale", dove si dice tra l'altro che "gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione". 
A chi dunque chiede un giorno sì e uno no a Renzi  e ai suoi collaboratori perché abbiano tutta questa fretta di cambiare la legge elettorale, basterebbe rispondere con questo ovvio principio: è bene che le leggi elettorali si cambino lontano dal voto, anche per assicurare quella "stabilità" della legge elettorale che vuol dire consentire ai cittadini di capire bene come si andrà a votare ed ai candidati e ai partiti di capire bene come la legge elettorale "nuova" funziona. Dunque: non solo non vogliamo andare a votare nel 2015, ma vogliamo cambiare la legge ora perché ora ci chiede di farlo l'Europa, diciamo.
Ovviamente quel Codice non è legge scritta sulle tavole, e i costituzionalisti ne discutono. Ma perlomeno è un argomento un po' più evoluto di "è bene farlo perché lo chiedono i cittadini che ci hanno dato il 41 per cento".

Invece Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd, intervistato oggi dal Sole 24 Ore, ha dovuto rispondere alla domanda: non è che avete fretta di fare la legge elettorale per andare al voto? Ed ha risposto che ovviamente non vogliono andare al voto. Poi ha detto: "E' immaginabile fare una legge elettorale che non muova da interessi particolari a fine legislatura? Non credo. La politica deve onorare l'impegno preso più volte coni cittadini e davanti al Parlamento: tutti i partiti hanno riconosciuto all'inizio di questa legislatura e ben prima della bocciatura della Consulta che la legge elettorale era uno dei mali da correggere. Ora ci sono le condizioni per fare la riforma, e la politica ha il dovere di farla". 


Guerini insomma l'ha messa sul pratico, su cosa conviene fare per il bene di tutti, a partire dal famoso "impegno preso con i cittadini". 

Avrebbe fatto bene, secondo me, lui e tutto il Pd, ad imparare un po' dai radicali di Pannella, che preferiscono parlare con il diritto, le norme, i principi. Al di là dell'impegno e dei "doveri" della politica c'è il diritto, innanzitutto. E partire da quello aiuta sempre, e consente di evitare sciocchezze. Se anche i giornalisti e i diffidenti conoscessero il Codice di buona condotta in materia elettorale, e leggessero di più quel che dicono i radicali, potrebbero tra l'altro "usare a loro volta gli argomenti del diritto, per diffidare Renzi dall'andare alle urne nella primavera del 2015 o semplicemente per fargli domande che non siano sempre le stesse. 

mercoledì 19 novembre 2014

"Una donna uccisa ogni due giorni"

Poiché immancabilmente si legge - a partire dalle ultime elaborazioni di Eures - che in Italia c'è "una donna uccisa ogni due giorni", siamo andati a leggere i numeri.
Eccoli (grazie a Public Policy): in Italia nel 2013 sono state uccise poco più di 500 persone. Di queste, 179 erano donne. Quanto a numero di morti è il numero più basso in assoluto. Quanto a numero di donne, non è il più basso in assoluto ma - per esempio - ci sono stati anni anche molto peggiori. Il 2000 per esempio (199 donne uccise) o il 2003 (sempre 199). E' vero che essendo diminuito il numero generale delle vittime, l'incidenza delle donne sul totale è più alta: il 35 per cento.
In ogni caso è vero che una donna ogni due giorni viene uccisa.
Femicide - termine anglosassone - dovrebbe voler dire che si uccide una donna in quanto donna.
Se una donna viene uccisa in una rapina, o in altro contesto estraneo, non dovrebbe essere "femminicidio". Eures giustamente distingue a questo punto i numeri e spiega che le donne uccise in famiglia, nel 2013, sono state 122. Già siamo a una donna ogni tre giorni.
Ma sicuramente si dovrebbe andare più a fondo, e capire le ragioni di questi omicidi in famiglia.
Se uccido la mamma per i soldi commetto femminicidio? Se uccido la nonna perché non mi faceva sentire la musica ad alto volume, commetto femmincidio? Un aumento signficativo di "femmincidi" secondo Eures si è verificato nella fascia d'età della vittima superiore a 64 anni, mentre sono drasticamente diminuite le percentuali di "femminicidi" di donne fino a 44 anni.
Numeri più piccoli, ma comunque da citare, sono quelli che riguardano le donne vittime di "femminicidio" uccise da donne: nel 2013 sono state nove le donne autori di omicidi di donne in contesti famigliari: in 3 casi la figlia, in due la madre, in uno la coniuge o convivente.
Insomma: i numeri vanno sempre guardati con attenzione. Sicuramente negli ultimi dieci anni sono diminuiti gli omicidi in generale e non sono diminuiti allo stesso modo quelli di donne. Questo è un fatto. Ma se si togliessero le etichette e i titoli ad effetto forse si capirebbe anche qualcosa in più.

martedì 18 novembre 2014

Tassare la casa per pagare la sanità

I laburisti britannici stanno conducendo una campagna elettorale in gran parte dedicata alla "difesa" del sistema sanitario nazionale (NHS), che considerano "sotto attacco" da parte del partito di Cameron.
La scelta di fare della difesa del NHS un punto cruciale della loro campagna elettorale è stata criticata dall'Economist, perché - dice il settimanale - continuare a difendere il sistema così com'è, anche se costa molto di più che in passato - vuol dire rimandare le necessarie riforme al momento in cui non sarà più sostenibile. 
Ma i laburisti pensano, forse a ragione, che difendere una delle cose cui i britannici sono giustamente legati è cosa necessaria.
Per questo arrivano a proporre una "patrimoniale", come la chiamerebbero i dilettanti allo sbaraglio che fanno politica in Italia. Ovvero una tassa piuttosto pesante sulle case di lusso, quelle che valgono più di 2 milioni di sterline. 
La cosa significativa è che - secondo le stime - queste case sono in Gran Bretagna circa 100 mila. E che dalla tassazione su queste case i laburisti contano di ricavare 1,2 miliardi di sterline. Il che significa 12 mila sterline per ciascuna casa, in media, con una applicazione progressiva dell'imposta che penalizzerebbe di più i proprietari di case del valore di oltre 3 milioni di sterline. 
In Italia, secondo recentissimi dati di Confedilizia, le case A1, ovvero quelle che continuano a pagare l'Ici, sono poco meno di 24 mila.
A queste vanno aggiunte le case di categoria A8 e A9, ovvero le ville e i castelli. In totale le case A1, A8 e A9, almeno nel 2012, erano meno poco più di 70 mila. 
E sicuramente la loro rendita catastale non sarà all'altezza di quella britannica. Un anno Berlusconi disse che aveva pagato di Ici 300 mila euro. Sicuramente l'ex Cav è proprietario di Palazzo Grazioli, di almeno sei ville tra Macherio, Arcore, Portofino, Cernobbio. Solo in quanto a ville in Italia, ne sono state censite almeno 11. A questi vanno sommati i molti appartamenti. A occhio e croce, con la Mansion tax britannica, gli sarebbe toccato pagare di più. 
Insomma: l'impressione è che - nonostante revisioni del catasto molte volte annunciate - in Italia anche questa ricchezza sia molto sottostimata, e che tutto sommato la casa non sia così tanto tassata come spesso ci ripetono. Senza contare che 73 mila case di lusso in Italia sembrano poche. 
L'impressione è anche che - nonostante ci sia l'Ukip, la crisi, il populismo anche lì - i laburisti inglesi non abbiano paura di chiedere più tasse ad alcuni per pagare qualcosa che serve e che funziona. 


venerdì 14 novembre 2014

Looking for a narrative

"The  language  of the left is a very humble one – living in a shadow of the rhetoric of those  who like comparing social democracy of this region with the former communist parties. There  is a need  for progressives to construct its own distinctive narrative, which would not borrow concepts  from liberalism and which would let people identify themselves with in terms of social discourse".

La citazione viene da un seminario organizzato dalla Feps, ovvero la Federazione dei partiti progressisti europei. Insieme alla Feps, ad organizzare erano anche il Demos, un think tank lituano, e l'austriaco Renner Institut
Il seminario si è tenuto in Lituania a metà  ottobre, ed è pieno di spunti e di riflessioni sul futuro del welfare europeo e su quel che dovrebbero fare i partiti socialisti. Il documento potrà sorprendere una classe intellettuale e giornalistica come quella italiana convinta che il mondo finisca con Fassina, Renzi e Grillo. Gli atti veri e propri saranno pronti a dicembre, ma la sintesi che viene offerta sul sito è comunque interessante

Si scopre - per così dire - che il dibattito tra "insiders e outsiders" nel mondo del lavoro riguarda tutti - e non solo l'Italia. Che il problema della tassazione del lavoro e di quella delle rendite finanziarie è un tema europeo e non solo dell'Italia dell'evasione fiscale. Che si parla di "politiche di centro destra" condotte da governi di centro sinistra in rifermento alla "austerità", evidentemente tema comune a noi e ad altri, persino in Lituania. 
E che - appunto - la sinistra europea dovrebbe ritrovare una sua propria "narrazione", non solo liberale e non comunista, per parlare al suo proprio popolo. Tante cose. 
Una la potrebbe dire Renzi, una Fassina, una Camusso. 

Ps: Per i giornalisti italiani, la Feps è quella presieduta da D'Alema, il posto in cui lavora quando ama rispondere che lui un lavoro ce l'ha. Magari però evitate di scrivere che "D'Alema dà ragione" a Renzi, o a Fassina, o a Camusso. Lui al seminario lituano non c'era (e neppure Renzi, Fassina, Camusso). 

martedì 4 novembre 2014

Articolo 18, per sapere di cosa si parla

A beneficio di tutti quelli che parlano di lavoro e di articolo 18 senza conoscere bene la materia, un piccolo riepilogo
1 - Quando si parla di articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ci si riferisce ai licenziamenti individuali e in particolare alla reintegrazione nel posto di lavoro per caso di licenziamento nullo o illegittimo. Lo Statuto - in questo articolo - è stato già modificato dalla legge Fornero. 
2 - Proprio la legge Fornero prevedeva un monitoraggio e una valutazione della riforma, anche su questo punto, di cui nessuno si è occupato da quando il tema è tornato ad agitare le cronache politiche. Questo monitoraggio è o dovrebbe esser fatto dal Ministero del lavoro. 
3 - Qualche giorno fa - come ha meritoriamente scritto l'agenzia Public policy - in Commissione lavoro della Camera, per una interrogazione del deputato Pd Baruffi, qualche numero è venuto fuori. Lo ha fornito il sottosegretario al lavoro Cassano
4 - Da questi numeri si evince che nel 2013 sono state licenziate per giustificati motivi oggettivi 720 mila persone. Non si tratta qui dei licenziamenti collettivi, quelli - per capirci - che toccano oggi Alitalia o Ast o aziende in crisi. No. Si tratta di tutti i licenziamenti individuali che ci sono stati nel 2013 per giustificati motivi oggettivi, ovvero perché l'azienda era in crisi e doveva licenziare, non c'era più spazio per la mansione del dipendente, l'azienda ha cessato l'attività. Insomma: l'azienda chiude, o non fa più le cose cui era adibito quel lavoratore, o non può più permettersi di tenere quel lavoratore. 
5 - Nella risposta si spiega anche che nei casi di licenziamento per motivo oggettivo intimati dalle imprese con più di 15 dipendenti - che dopo la legge Fornero passano per una conciliazione preventiva obbligatoria - le procedure di conciliazione sono state 10000 per semestre. Sarebbero circa 8500 per il primo semestre del 2014. Dice il governo che gli "esiti positivi", ovvero di vertenze risoltesi con una transazione o con la rinuncia al licenziamento sono circa il 50 per cento. Nella tabella allegata poi si chiarisce meglio che la stragrande maggioranza di questi 4 o 5 mila casi all'anno si risolvono per accordo economico. E che solo in 428 casi nel primo semestre del 2014 il datore di lavoro ha rinunciato al licenziamento  
6 - Come è evidente, su 720 mila persone circa 10 mila licenziamenti sono oggetto della questione. Per il resto è altrettanto evidente che licenziare si può benissimo, e che il problema dell'articolo 18 è molto relativo. 
7 - Dagli stessi numeri si evince che circa 20 mila sono stati i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo. Erano stati 25 mila nel 2012. Questi sono i licenziamenti cosiddetti "disciplinari": se un lavoratore mette in atto comportamenti disciplinarmente rilevanti, il datore di lavoro può licenziarlo. Si tratta dei licenziamenti che avrebbero bisogno - secondo Renzi e il Pd - di una maggiore precisione normativa nei decreti della legge Delega. I dati del ministero dicono che giacciono davanti ai tribunali e alle corti d'appello italiane circa 27 mila procedimenti per tutti i tipi di licenziamento. Per quelli "disciplinari" sono circa 4000. Sono di più quelli per "giusta causa", per esempio. 
8 - Infatti, ci sono stati 73 mila licenziamenti per giusta causa nel 2013, contro i circa 86 mila del 2012. Questi sono i licenziamenti in cui un lavoratore - a giudizio del datore di lavoro - fa una cosa talmente grave da non consentire il proseguimento del rapporto. Si licenzia senza preavviso, in questo caso. Nel 2012 - dice ancora il governo, i casi finiti in tribunale di licenziamenti per giusta causa e terminati con una sentenza erano poco più di 2800. Nel 33 per cento dei casi l'istanza del lavoratore contro il licenziamento è stata respinta, nel 35 per cento dei casi accolta totalmente, nel 16 per cento dei casi accolta parzialmente. Nello stesso anno, i casi finiti in tribunale e terminati con un decreto o una ordinanza erano oltre 4000. Il 65 per cento di questi casi si è concluso con una conciliazione. Anche questi sono licenziamenti "disciplinari", su cui è intervenuta la legge Fornero. 
8 - Il governo dice anche che "nel 2013 più della metà delle controversie in materia di licenziamento risulta definito in via conciliativa". Anche qui, basta vedere le tabelle: tra i licenziamenti "economici" individuali e quelli "disciplinari", pure individuali, ci sono circa 7000 casi. Di questi, oltre 4000 sono risolti con la conciliazione. 
In sintesi dunque: licenziare non è così difficile. Non è vero che è il rapporto di lavoro è inscindibile peggio del matrimonio. Nella maggior parte dei casi si risolve con una conciliazione. I licenziamenti "disciplinari" sono nella maggior parte risolti  con conciliazione. E comunque non sembrano un gran problema. Semmai sono molti di più quelli per giustificato motivo oggettivo, su cui ormai tutti sono d'accordo. 
Aspettare magari i numeri del monitoraggio non sarebbe stato meglio, invece che fare tutto questo casino? 

martedì 14 ottobre 2014

Luxottica, sarà dei giornalisti quando se la compreranno

Lo schizofrenico giornalismo italiano, con il caso Luxottica, continua a dare il meglio di sé. L'Ad unico dell'azienda di Leonardo Del Vecchio era fino a un mesetto fa Andrea Guerra, uno di quei supermanager i cui stipendi confermano tutti i libri sulle caste, le disuguaglianze e le ingiustizie del mondo. Guerra probabilmente - ebbe a dire Francesco Carlà, che di Borsa capisce parecchio - aveva tirato troppo la corda, e "Del Vecchio è andato a vedere che carte aveva", "sapendo già in partenza che non potevano essere particolarmente buone". Nel senso che - dice Carlà - una azienda come Luxottica, nata dal genio di chi l'ha fondata, potrebbe pure essere amministrata da un inetto, e poco cambierebbe.

Ma - dicono i commentatori di oggi, che rimpiangono Guerra - le aziende sono fatte anche di "credibilità", e se l'immagine di una azienda famosa in tutto il mondo è quella di una specie di Dinasty all'italiana, con seconde e terze mogli, figli e contese sui posti in cda, il titolo scende. Anzi, "crolla", per dirla con i titoloni sui soliti miliardi "bruciati" in pochi giorni.
Ma il fatto è che Luxottica è una azienda familiare. Oltre il 60 per cento delle azioni sono in mano a una società che si chiama Delfin, che è la Finanziaria di famiglia. E dunque è Del Vecchio con i figli ed eventualmente la moglie - seconda e terza - che decidono delle sue sorti.

Sarà dei giornalisti indignati quando se la compreranno.

Intanto loro giocano su quel 30 per cento di "flottante", le azioni che in Borsa vanno su o giù, e pensano di spiegare il capitalismo.
Magari il problema italiano è sì quello di troppo capitalismo familiare. Ma il caso Luxottica è quello sbagliato, ci sembra.
Il fatto è che Luxottica esisteva prima di Guerra, Del Vecchio l'ha fondata oltre 50 anni fa, e l'ha fatta diventare un gigante. Ha comprato Ray Ban, ha debuttato in Borsa, ha comprato Sunglass, prima - prima - di Guerra. Oggi scende un po' in Borsa, ma siamo certi che se il business funziona la Borsa premierà. E se non risale siamo certi che sarà perchè il business non funziona, non perché la signora Zampillo vuole mettere bocca.



venerdì 3 ottobre 2014

Povertà

Il ministro Poletti, ieri in Commissione Affari Sociali, ha parlato di come è andata la sperimentazione della SIA, che sta per Sostegno per l'inclusione attiva, uno strumento di lotta alla povertà lanciato un anno fa dal governo - allora c'era il Ministro Giovannini.

Lo strumento è stato lanciato in via sperimentale in 12 città ed è stato elaborato un primo rapporto su come ha funzionato la sperimentazione: circa 7000 nuclei familiari, circa 27 mila persone. A queste persone - con una specie di carta di credito prepagata - sono andati circa 27 milioni di euro.
Dunque circa 1000 euro a persona. Ma la notizia è che solo tre città delle 12 - Catania, Palermo e Torino - hanno impegnato tutto il budget impegnato nel programma. A Napoli per esempio c'erano quasi 9 milioni di euro, ma ne sono stati impegnati meno di 6 milioni. Le domande sono infatti state oltre 2800, ma oltre 1500 non avevano i requisiti per poter accedere alla Sia.
Il punto infatti pare essere quello dei requisiti: un Isee inferiore a 3000 euro e una lunga serie di requisiti di povertà.
Ma il senso è chiaro: trattandosi di una misura per quelli veramente poveri, doveva essere diretta a loro.
E' possibile tuttavia che a Napoli ci siano state solo 1500 famiglie, ovvero solo 6000 persone, che potessero accedere a questo strumento?
Il dato contrasta abbastanza brutalmente con i titoli dei giornali, quando escono i dati Istat, secondo i quali le persone povere in Italia sarebbero milioni.
Ma il problema è che la povertà di cui parla l'Istat è la povertà relativa. Che vuol dire che se due persone spendono 972 euro al mese o meno sono povere.
Ovvio che così ci rientra una cifra di gente.
Diversa è la povertà assoluta, che invece è calcolata su una soglia di beni e servizi considerati essenziali. Al di sotto di quella soglia, si è poveri in assoluto. Il valore cambia per area geografica, ma per capirci è povera una famiglia di due persone in età da lavoro che in una area metropolitana del sud spende meno di 800 euro. Se si è in due con tre figli minori la soglia di spesa al di sotto della quale si è poveri in assoluto è 1480 euro.
In totale le persone in povertà assoluta sono oltre 6 milioni, e 3 milioni e mezzo sono nel sud.
Ma di questi - secondo me - molti ce la fanno ad arrivare a fine mese. Sono persone e famiglie per le quali una spesa imprevista, una malattia, un problema improvviso, possono essere un bel problema. Ma non sono persone che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena.
Quelli, o almeno quelli che hanno chiesto aiuto allo Stato attraverso la Sia, a Napoli sono meno di 6000.

giovedì 2 ottobre 2014

La storia degli ebrei (e degli altri)

Ogni tanto mi capita di vedere, da qualche militante di twitter o di facebook, quella cartina che dovrebbe spiegarmi il conflitto israeliano-palestinese, dove si vede di quanta terra si sono impadroniti i perfidi ebrei e quanta ne hanno sottratta ai poveri palestinesi. Durante l'ultimo attacco a Gaza ne è venuta fuori pure una con l'Italia, per mostrare il termine di paragone. E vabbè. E' sconfortante, ma d'altra parte non ci si può fare niente.
 L'informazione, il modo in cui ci si informa, la conoscenza delle cose, la storia: non sono merci molto diffuse, e in rete ancora meno. Basta sparare fregnacce, e possibilmente con i punti esclamativi, qualche foto d'effetto, qualche maiuscolo.
Però, siccome non mi scoraggio, vorrei che tutti leggessero il bellissimo libro di Simon Schama "La storia degli ebrei in cerca delle parole". Nell'indice dei nomi non ci troverete né Abu Mazen né Netanyahu, e neppure Rabin, e nemmeno Golda Meir. Neppure Renzi.

La storia è fino al 1492, quando - oltre alla scoperta dell'America accadde qualcosa di importante per gli ebrei (cercatelo su Wikipedia).
E il bello è che di Gaza e della sorte dei poveri pescatori, ma pure delle famiglie che vivono al confine e che si beccano i razzi di Hamas, improvvisamente vi importerà pochissimo.
Scoprirete - in un libro che fa venire voglia di leggere la Bibbia, di andare a vedere musei sperduti, di imparare l'ebraico e l'aramaico - un sacco di cose. Alcune molto più brutte della operazione piombo fuso.
Io ne ho scoperte un sacco, compreso che nell'isola Elefantina in Egitto c'era una comunità ebraica, c'è stata una sinagoga, e non è che fossero così ligi ai libri sacri.
Il libro viene da un ciclo di trasmissioni fatte dalla Pbs, 

lunedì 29 settembre 2014

Cofferati e l'articolo 18

Cofferati ha appena pubblicato una riflessione in cui pretende di spiegare perché sarebbe in corso un "assalto all'articolo 18". Per farlo cita un intervento parlamentare di Ugo Spagnoli del 1966. Quell'intervento, dice Cofferati, era alla fine del dibattito sulla introduzione nell'ordinamento italiano della "giusta causa" per poter licenziare.
Il fatto è che quel dibattito e la norma che ne nacque non c'entrano nulla con l'articolo 18. Che è di 4 anni dopo, e che regolò la giusta causa. E' dunque collegato a quel dibattito, ma non c'entra con il tema in questione: se un licenziamento è illegittimo, cosa può ottenere un lavoratore? Secondo lo Statuto dei lavoratori, quando un licenziamento è giudicato illegittimo da un giudice, che valuta se ci sia o no la giusta causa, il giudice dispone il reintegro. Ma vale solo per le aziende con più di 15 dipendenti.
Sotto, la dignità del lavoratore non è un criterio, evidentemente.
Qualche anno fa si fece un referendum per estendere l'articolo 18 alle imprese con meno di 15 dipendenti. Cofferati non andò a votare,

mercoledì 3 settembre 2014

Ntv-Trenitalia, ovvero il mito della concorrenza

Qualche tempo fa viaggiavo su un treno Italo e il treno si fermò pochi chilometri dopo esser partito, da Roma Tiburtina.
Dopo qualche decina di minuti - train managers indaffarati avanti e indietro senza capire quel che succedeva (pare che non si chiudessero le porte, problema non infrequente su questi treni superveloci) - il treno è tornato indietro, si è fermato alla stazione da cui eravamo partiti, ci hanno fatto scendere, e ci hanno detto che ci avrebbero fatto salire sul successivo Italo (un'ora dopo).

Saliti sull'altro Italo - eravamo diretti a Bologna - e passato qualche minuto, dall'altoparlante è arrivato l'annuncio che questo treno era in ritardo. Abbiamo offerto sguardi rammaricati ai viaggiatori seduti, perché era colpa nostra - o meglio del nostro treno.

Ma l'annuncio aggiungeva: "il treno è in ritardo per ritardo di un treno altra compagnia ferroviaria". Un infido Frecciarossa aveva causato il ritardo, sembrava dire l'annuncio.

Non era vero, ovviamente, e ci siamo fatti una risata, viaggiatori e giovani stagisti trainmanager compresi, già abituati a rimproverare la scorrettezza di Fs, perché sulle banchine di Italo non c'è neppure un cestino e pare che ci mandino i barboni a fare pipì apposta per danneggiare la concorrenza.

Per dire del mito.

Ora, Ntv pubblica una pagina sui principali quotidiani, spendendo presumibilmente un po' di soldi, per elencare in modo assai vago le sue ragioni. L'unica cosa certa è l'aumento delle tariffe elettriche. Che però varranno dall'anno prossimo, e dunque non spiegano i conti non proprio brillanti della compagnia di trasporto. Poi c'è il "pedaggio" che Ntv paga a Fs, o meglio a RFI, per l'utilizzo della rete. Un pedaggio molto alto - dicono a Ntv - che però è stato ridotto del 15 per cento a fine 2013.

Quando nacque, Ntv annunciò per il 2014 il break even. A inizio 2014 dovette annunciare che slittava al 2016.

L'impressione è che fare trasporti senza sussidi pubblici non funzioni, ovvero non renda.

Lo dimostra paradossalmente proprio Trenitalia, che campa con i sussidi. Sussidi che non riguardano solo i "treni regionali", come spesso l'ex Ad Moretti strillava. Che, anzi, riguardano soprattutto l'Alta velocità. A partire dalle tariffe generose concesse fino ad oggi per l'elettricità, che per questo il governo ha aumentato.


I conti di Trenitalia sono complicati da seguire, ma chi si occupa di economia dei trasporti lo ha fatto spesso, per esempio sul sito de LaVoce info. E i conti sembrano provare quel che si sospetta: senza investimento iniziale (non bisogna dimenticare che la rete ad alta velocità è stata fatta tutta dallo Stato, non da cavalieri del libero mercato) e senza sussidi l'Alta velocità - semplicemente - non rende.
A meno di non far pagare agli utenti un po' di più, e di tagliare dipendenti.

Ma funzionerebbe altrettanto la retorica di "non toccateci Italo?".





martedì 27 maggio 2014

Grillo: l'importante è far ridere ancora.

Questo post ha l'intenzione di offrire una lettura del fenomeno Grillo. Oddio, "lettura" e "fenomeno" sono concetti non proprio necessari, per quel che intendo dire. Secondo il mio punto di vista Grillo non merita particolari letture. Il successo o l'insuccesso del suo movimento dipendono essenzialmente dalla sua carica, dalla capacità attoriale di tenerlo insieme, dalla capacità di far ridere. A me per esempio il suo ultimo videomessaggio non è sembrato una "autocritica ironica", come ho letto, ma un bel pezzo comico, fatto da uno che conosce bene quel mestiere, lo sa fare, e fa ridere. A me la frase "Ora Casaleggio è in analisi a capire perchè si è messo il cappellino" fa ridere, e mi sembra che tutto il suo messaggio è in quel passaggio: "Vincono loro, ma è meraviglioso lo stesso". La verità secondo me è che Grillo - e tanti di quelli che lo votano, e che lo rappresentano in Parlamento - non capiscono nulla di politica. Sono contenti perché "è meraviglioso" che un "movimento" di "cittadini" sia arrivato in così poco tempo in Parlamento, e porti decine di persone "come noi" al Parlamento europeo. Hanno ragione, il risultato non è una sconfitta. Se avesse superato Renzi sarebbe stato pazzesco, ma anche così non è che abbia perso.
Il fatto è che non è quello il suo mestiere. E a me ogni volta dà l'idea di uno che sta per dire: ma ci avete creduto davvero? Ragazzi, io sono un comico, e voi siete qui a inseguirmi manco fossi Bin Laden?
Il comico Grillo faceva ridere davvero, e la sua evoluzione - dalla tv al teatro, dalla distruzione dei computer alla magnificazione della "Rete" - è una involuzione di contenuti, di sciocchezze, di luoghi comuni, mescolata con l'arte di far ridere. E anche il rito del vaffanculo era un'americanata, una cosa al livello di "Quinto potere", il collettivo che si libera delle catene. O meglio: la comunità, concetto un po' più fascistoide. La comunità dei cittadini.
Grillo non mi fa paura, come non me ne faceva Berlusconi, come non me ne fa Renzi. In realtà mi sembrano simili in un tratto, forse più forte in Berlusconi e Grillo e meno in Renzi: sanno far spettacolo, e quando si recita si fa finta, si mette in scena. Grillo lo fa benissimo. Quando fa la parodia di Mussolini si prende per il culo da solo. Poi il suo pubblico crede che prenda per il culo gli altri, ma lui lo sa benissimo che stare lì sopra, urlare, e vedere gente che sventola bandiere è la cosa più inquietante e più  divertente del mondo.
Dice: ma ha detto siamo oltre Hitler. E che sarà mai? E' una affermazione paradossale, un modo per dire: ma che cosa me ne frega, a me, di Hitler.
Dice: ma così ha perso voti. Vuol dire che il Movimento 5 Stelle aveva bisogno di un Alfano? Per prendere il 4,2 per cento dei voti? Ma siamo seri.
Il fatto è che se ha perso, se non ha vinto, dice ok. E se alla fine c'è da cambiar qualcosa  si cambia, si prende un maalox, si aggiusta una data, si dà la colpa all'Europa, alla culona, ai conservatori, ai pensionati, al gruppo Bildeberg, e si continua lo spettacolo, magari aggiornandolo. Come quando passò dal distruggere i computer al magnificarli, appunto.
Se un movimento di protesta prende il 20 per cento a me non sembra spaventoso. Una opposizione dovrà pur esserci, e la gente che vota Grillo sta all'opposizione. Magari tra dieci anni voterà per un altro, ci sarà un Grillo più bravo. Sicuramente senza Grillo quei numeri non ci sarebbero. E sicuramente tanto più il Movimento 5 Stelle starà nelle istituzioni tanto meno guadagnerà consensi.
Ma intanto i comizi urlati di Grillo, con i suoi paragoni, e la sua arte, sono una delle cose più divertenti della campagna elettorale. Un po' come quando parlava Bossi, quando faceva la storia dell'umanità in mezz'ora, partendo dai celti e arrivando a Borghezio. Grandissimi, Bossi e Grillo. Iddio ce li conservi. Un futuro fatto di Salvini, di Renzi, di Alfano, di Schulz, francamente, ci sembrerebbe al confronto un inferno senza fine.


martedì 13 maggio 2014

Immigrati, richiedenti asilo, Italia

Il Presidente del Consiglio Renzi ha preso qualche altro titolo di giornale per la sua battuta secondo cui l'Europa non può salvare le banche e poi lasciar morire donne e bambini che tentano di arrivare sulle coste dell'Europa.
La frase non è dissimile alla sindrome che coglie i governanti italiani, abituati allo stesso mantra da anni: quelli che scappano dalla fame, dalla miseria e dalla oppressione, nella sponda sud del mediterraneo, arrivano "naturalmente" sulle nostre coste. Di solito poi si aggiunge: 'Non è da noi che vogliono venire" (ed è come se dicessero: l'Italia fa schifo, lo sanno pure i siriani). Vogliono andare in Germania, in Svezia, in Olanda.
I giornali puntualmente raccontano le storie felici di immigrati che sono riusciti ad arrivare nella dorata Danimarca. Ma il problema sono quei cattivoni dell'Europa, che non vogliono farli passare.
Discorsi miserabili, ma tant'è. Sono discorsi.
Poi ci sono i numeri. I dati veri.  Quelli che dicono come la sindrome "vengono tutti da noi" sia una sciocchezza. Perché l'Europa ha confini anche a est. E perché persino quelli senza confini terrestri - l'isolato e antiUe Regno Unito, per dire - fanno meglio di noi in termini di accoglienza. E si lamentano di meno.
Per esempio (i dati sono presi dalla pregevole West Info): sapete quanti siriani sono entrati in Europa chiedendo asilo? Poco più di 50 mila. Sapete quali Paesi li hanno accolti? Primo, la Svezia (oltre 16 mila). Poi la Bulgaria (molto più vicina della Svezia), quasi 5 mila. E persino la Croazia, la Slovenia, la Romania, il Portogallo.
Sapete qual'è la popolazione con il maggior numero di richiedenti asilo in Italia? Quella nigeriana, poco più di 3000 persone.
Sapete quanti richiedenti asilo c'erano in Italia nel 2013? Meno 28 mila.
Sapete quanti richiedenti asilo c'erano in Germania? 126 mila. E in Francia? 64 mila. E in Gran Bretagna, Paese dove le banche le salvano eccome, e dove non arrivano con i barconi? 29 mila.
Più che in Italia, dove ci si lagna tanto, e si invoca sempre l'Europa.

giovedì 3 aprile 2014

Tutele e lavoro: perché il lavoro non c'è, e perché togliere le tutele - o metterle - non serve a niente

L'avvocato Laser torna ad intervenire - da persona competente - sul tema del lavoro, per dire la sua sul ddl delega che prevede il cosiddetto contratto di inserimento a tutele crescenti. Sul tema del contenzioso, che avevamo sollevato in un precedente post - dice che l'aspirazione di ridurlo, il contenzioso, è sbagliata; ed è sbagliata perché lascerebbe ancor più privi di tutele i lavoratori, che nel rapporto di lavoro sono ancora la parte debole. Se è indubbia quest'ultima notazione, quel che ancora non si capisce bene è quale sia il livello del contenzioso oggi. Quante cause ci sono? Quanti lavoratori si sono rivolti al giudice dopo che un contratto non è stato rinnovato, o dopo che è stata apposta una causale qualsiasi nell'ambito di quel "causalone" che consulenti del lavoro, avvocati e sindacalisti conoscono benissimo?
La mia impressione è che - proprio perché il lavoratore è parte debole del rapporto - difficilmente fa causa. Che di cause ce ne sono poche, come poche secondo me erano quelle per il reintegro ex articolo 18.
E comunque nel caso del tempo determinato il causalone consentiva e consente al datore di lavoro di scrivere qualcosa per giustificare il ricorso al tempo determinato, senza particolari problemi. E che per questo, insomma, di cause non ce ne siano granchè.
In breve: se non si assume non è perché c'è la causale. E se si assume non è nonostante la causale.
Così come: se non si assume non è perché c'è o c'era l'articolo 18. E se si assume, non è nonostante l'articolo 18.
Per spiegarmi ancor meglio: io sono entrato in una azienda anni fa con un contratto di formazione lavoro, strumento che oggi non esiste più. Questo contratto prevedeva l'obbligo per il datore di lavoro di fornire, con la retribuzione, una specifica attività formativa e di seguire questa attività formativa. Io - e sono sicuro che valga per quasi tutti i miei coetanei che hanno cominciato a lavorare in questo modo - avrò fatto sì e no una settimana di formazione finta, nel senso che conoscevo benissimo il lavoro e non avevo particolari bisogni di essere formato. Conveniva all'azienda perché si era inquadrati in una qualifica inferiore, e si avevano sgravi. Come per i contratti a tempo determinato di oggi ci voleva la forma scritta. E dopo due anni, l'azienda doveva confermare una percentuale dei contratti di formazione lavoro. Era insomma un altra "furbizia all'italiana", che ha consentito a me di entrare e poi di passare al tempo inderminato in quell'azienda. E a tanti come me in Italia. Ma se non ci fossero state le condizioni economiche di partenza, se cioè non ci fosse stata una condizione promettente per l'assunzione, non sarei mai entrato a lavorare, né con quel tipo di contratto né con qualsiasi altro. Il contratto è stato un trucchetto legittimo che l'azienda ha usato, per spendere di meno e mettere alla prova qualche lavoratore, per poi scegliere. Tra l'altro fummo tutti confermati a parte uno che proprio non era in grado di lavorare, perché sennò l'azienda avrebbe tenuto anche lui.
Quello che penso, insomma, è che non siano le norme che creano o tolgono posti di lavoro. E che non siano le tutele a proteggere chi lavora, in condizioni di normalità. Che non serve fare ogni due anni un ddl, perché non è con i contratti a tutela crescente che si creano posti di lavoro, che non si creano per legge, mai.


mercoledì 2 aprile 2014

Causali, causalone e contenzioso

Il ministro Poletti, illustrando i contenuti dei due provvedimenti sul lavoro (un decreto e un disegno di legge delega) ha spiegato che una delle ragioni che hanno indotto l'esecutivo a intervenire sul tema delle causali del contratto a tempo determinato è nell'aumento del contenzioso. Giuliano Cazzola, ex parlamentare del Pdl ed esperto di diritto del lavoro, ha avuto modo di scrivere del suo apprezzamento per Poletti:

"Se fosse istituito il premio del politically(in)correct, il ministro meriterebbe di ricevere quello settimanale per la franchezza dimostrata nel presentare le cose come stanno", perché Poletti "ha ricordato che già adesso il 70% delle assunzioni (sono dati di flusso e non di stock) avviene con questa forma contrattuale. Più recentemente, il ministro ha sottolineato che, grazie alle modifiche introdotte nel decreto, il governo vuole ridurre il contenzioso. Proposito lodevole, perché, nella sua genericità, il c.d. causalone era una classica furbizia all’italiana". 


Ora, se cercate "causalone" in rete trovate una serie di riferimenti e di commenti di giuristi, avvocati, sindacalisti, manuali di consulenti del lavoro. Causalone è in pratica la lunga frase che si trova nella legge in vigore, che dice che è obbligatorio indicare i motivi "tecnici, produttivi, organizzativi o sostitutivi" per cui si assume un lavoratore a tempo determinato. Poiché quel "causalone" era una "classica furbizia all'italiana", tanto vale eliminarla. Anche perché produceva "contenzioso". 

Ora, delle due l'una: se era una "furbizia", un modo per scrivere nel contratto quel che la legge diceva, quale contenzioso ha creato? La questione non era risolta, appunto, dalla furbizia all'italiana?

Forse può aiutare una audizione parlamentare molto breve ma molto interessante con Abi (banche) e Ania (imprese assicuratrici) (qui trovate il documento portato da Abi, e qui quello prodotto da Ania), in  cui la domanda più interessante l'hanno fatta due parlamentari che nelle loro vite precedenti facevano altro: Giampaolo Galli, deputato Pd che è stato direttore generale di Confindustria, e Giorgio Airaudo, che è stato sindacalista della Fiom e che si definisce"in prestito dalla politica". Perché l'impressione, come d'altra parte era per il vecchio dibattito sull'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è che "il contenzioso" sia poca cosa. Che non sia un vero problema. Quanti casi ci saranno?


Difficile trovare dati, in rete. E difficile pure averli dalle istituzioni. Il Ministro non li ha forniti nelle sue relazioni in Parlamento.

I rappresentanti di Abi e Ania Mieli e Focarelli hanno detto di non avere dati e che semmai li manderanno alla Commissione. Ma hanno spiegato che i settori tendono ad usare apprendistato e tempo indeterminato. Che gli apprendisti - dopo che li hanno formati per tre anni (e vorrebbero che l'apprendistato arrivasse a 4) - tendono ad assumerli con percentuali del 100 per cento.

In ogni caso uno degli avvocati che scrivono in rete, Avvocato laser, tendenza sinistra radicale) dice che di cause sul causalone ce ne sono poche

Invece, dall'audizione vengono fuori molte cose interessanti, proposte delle due organizzazioni, riferimento ai contratti, il dato per cui non sono tanto le regole che creano occupazione (anche se alcune regole possono ostacolarla). Insomma: ancora una volta, prima di scrivere, bisognerebbe sentire quelli che di lavoro ne sanno, imprenditori e lavoratori in testa. 
L'audizione in Commissione Lavoro della Camera la trovate qui