lunedì 26 ottobre 2015

L'Expo, il Pil, la grande Fiera di paese

Una esposizione universale nell'anno 2015, quando ogni fine settimana si espone qualcosa in qualunque parte del mondo, è una specie di fiera di paese in grande, un luna park, uno spettacolo sostanzialmente inutile per la crescita.
Lo dice pure Dario di Vico
Serve a fare colore, a dare gioia alla gente che fa la fila per entrare in un padiglione che tuttavia non è tanto diverso - anche nei colori - a quelli che vendono gelati e orologi nelle stazioni centrali e negli aeroporti. Per chi - come il commissario Sala - ha visto gli aeroporti del mondo, non c'è probabilmente niente di speciale in Expo. Anche perché la sfida più sfida più importante  non è tanto far arrivare gente ma non far degradare le strutture, trovare il modo di smontarle o di riutilizzarle, sul sito o altrove (il famoso albero della vita), e non perderci.
Come abbiamo già detto altrove Expo 2015 sarebbe andata in pari, ha detto Sala, alla quota di 24 milioni di visitatori paganti. Paganti è un dettaglio importante perché - a parte la quota di persone accreditate nella struttura, che erano lì per lavorare (anche io sono entrato senza pagare, e non sono nessuno) - ci sono stati molti biglietti regalati. Se andavi a dormire a Milano in ottobre ti regalavano l'ingresso. Le compagnie telefoniche ti mandavano inviti ad andare. Se sei giovane, vecchio, disoccupato, se prendi Italo, se viaggi con Trenitalia un modo per andare a fare le tue dodici ore di fila gratis lo avrai trovato.
Dunque, è andata benissimo, poteva andare peggio, i gufi non hanno trionfato però Expo 2015 è in perdita. Oltre a questo però ci sono anche i numeri.
Dicevano tutti che ci si aspettava un milione di cinesi. Beh, stando ai dati del Comune di Milano, diffusi il 6 ottobre,  i numeri non sono proprio incoraggianti. Dice il Comune che "dei 3,8 milioni di turisti giunti a Milano nei primi cinque mesi di Expo, il 46 per cento era italiano e il 54 per cento fatto da stranieri. Di questi, il 12,9 americani, il 9,8 francesi, il 7,7 per cento di cinesi. Due milioni di persone, l'8 per cento è 160 mila. Nei primi cinque mesi. O sono arrivati tutti in queste tre settimane oppure i cinesi non si sono visti.
Si arriverà probabilmente a 21 milioni di visitatori. Ma la maggioranza - la stragrande maggioranza - erano italiani. Come quelli che sono andati l'anno scorso in uno dei tanti outlet della penisola.
I cinque di Mc Arthur Glen hanno fatto uguale 20 milioni di ingressi nel 2014 e non lo ripetono nei convegni internazionali. E sicuramente loro non sono in perdita.

mercoledì 21 ottobre 2015

Legge di Stabilità e clausola migranti, ovvero perché 3 miliardi e 300 milioni sembra una cifra un po' altina

Nella lettera che il ministro dell'Economia Padoan ha inviato a Bruxelles per spiegare alla Commissione europea la legge di Stabilità  c'è un capitolo dedicato al costo che l'Italia sta sostenendo per accogliere i migranti, titolato "Fiscal costs of immigration and rescue operations". E' quella che i giornali chiamano "clausola migranti", ovvero la richiesta alla Ue di poter sforare di altri 3,3 miliardi di euro a causa dei costi che il fenomeno dell'immigrazione ha causato e causerà al bilancio dello Stato italiano.

Scrive Padoan che la parte più significativa di questa spesa ("the most significant share of expenditure") riguarda le strutture di accoglienza e la quantifica nel 50 per cento del totale. Poi le operazioni di recupero e di salvataggio in mare (25-30 per cento) e infine per le cure e la scuola per i migranti che arrivano in Italia.  Senza contare i costi "indiretti e incalcolabili" (indirect, and incalculable, costs are being faced for the overall integration of immigrants into the economic and social fabric of the country).
Cerchiamo di vedere nel dettaglio numeri ed "expenditure" relative.

I migranti ospitati in Italia, secondo i dati forniti dal Viminale, sono in questo momento quasi 100 mila, divisi tra la rete di accoglienza Sprar (Servizio centrale protezione richiedenti asilo e rifugiati), i centri governativi e quelli temporanei. Lo Sprar pubblica dei bandi - uno è attivo proprio in questi giorni - in cui invita a candidarsi per ospitare migranti. Solo in questa fase il bando è per 10 mila posti. I migranti che oggi sono distribuiti tra gli enti locali, in attuazione di oltre 450 progetti, sono oltre 20 mila.

Anche a voler largheggiare, anche a voler considerare la spesa di 50 euro al giorno per ogni migrante (il costo medio come sapete e come ripetono ossessivamente quelli che non vogliono gli immigrati è 35 euro), se moltiplichiamo per 100 mila migranti, siamo a 5 milioni di euro. Per un mese fa 150 milioni, per un anno fa 1 miliardo e 800 milioni. Una cifra molto alta che neppure il governo considera. La conferma arriva da una tabella pubblicata proprio ieri, 21 ottobre, dal ministero dell'Interno in un rapporto sulla accoglienza (qui l'abstract). Dice che la stima del costo totale tra le strutture Sprar, i Cara, i Cda, i Cpsa è di 1 miliardo e 162 milioni.

Siamo dunque molto lontani dai 3 miliardi e 300 milioni di cui parla il governo. Se questa parte, come dice Padoan, è il 50 per cento della spesa, scoprirete che ai 3 miliardi non ci arriveremo mai.
Dice infatti il governo italiano: ma non c'è solo l'accoglienza. C'è la spesa per l'intervento delle nostre forze dell'ordine, per i salvataggi in mare, per la protezione civile, quella che deve sopportare il sistema sanitario e quello scolastico. Queste due voci dovrebbero fare l'altro 50 per cento.
Nel documento inviato alla Commissione Europea il governo italiano giustamente sottolinea che il nostro Paese consente di frequentare la scuola e di terminare gli studi a tutti i minori, indipendentemente dallo status dei genitori. Ma se se guardano i dati dell'anno scolastico 2013-2014 (l'ultimo disponibile) si vede che gli stranieri nelle scuole italiane erano oltre 800 mila, di cui oltre 150 mila di nazionalità romena, oltre 100 mila di nazionalità albanese, oltre 100 mila marocchini, e poi - scendendo nella classifica - cinesi, filippini, moldavi, indiani, ucraini, peruviani, tunisini, dall'Ecuador, dai Balcani, dalla Turchia, perfino dalla Francia o dalla Gran Bretagna.
E soprattutto oltre la metà di quel 51 per cento è di seconda generazione, ovvero è nata in Italia. Quell'anno gli alunni entrati "per la prima volta" a scuola erano il 4,9 per cento del totale. Meno di 40 mila. E di questi occorrerebbe sapere quanti fanno parte della categoria "figli di migranti clandestini".

Ma anche ammettendo una qualche variazione dovuta all'arrivo dei barconi (secondo i dati del ministero dell'Interno nel 2014 sono arrivati oltre 26 mila minori, di cui 14 mila non accompagnati, fino al 10 ottobre 2015 ne erano arrivati altri 16 mila circa) difficile che il numero di alunni stranieri figli di clandestini sia tale da provocare chissà quali spese all'istruzione italiana.

Anche ammettendo un costo standard per studente di 2500 mila euro e anche ammettendo tutti i minori arrivati poi approdati nelle aule scolastiche ad apprezzare la buona scuola, avremmo una spesa di 100 milioni di euro. E sicuramente non è così. Anche perché non sappiamo quanti di questi minori entrino davvero in una scuola e quanti se ne stiano nascosti in attesa di tentare di andare in Germania o in Svezia.

Quanto al sistema sanitario, vale la pena di ricordare che i "clandestini" possono avervi accesso solo per cure definite "essenziali": gravidanza, vaccinazioni, profilassi e cura di malattie infettive,  cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti. In questo caso i medici sono tenuti a non segnalare il "clandestino" alle forze dell'ordine. Non crediamo che i numeri siano tali da spiegare una spesa molto significativa per il nostro sistema sanitario.

Infine, la spesa per protezione civile, polizia, salvataggi. In questo caso, per avere una misura delle cose, facciamo un confronto: il fondo missioni, cioè la dotazione annuale che il Ministero dell'economia ha riservato a tutte le missioni militari italiane all'estero, è di 900 milioni di euro. Forse quest'anno non basteranno, forse serviranno 100 milioni in più. Siamo al miliardo.
Possibile che l'azione di salvataggio e di assistenza quest'anno sia costata molto di più degli oltre 4500 militari italiani impegnati in Afghanistan, nei Balcani, in Libano eccetera eccetera, con relative armi, mezzi, rifornimenti?
Sempre per fare un confronto, l'operazione Mare Nostrum era composta di 700-1000 militari, due corvette, un pattugliatore, alcuni elicotteri. E costava all'Italia - secondo la Fondazione Leone Moressa  - circa 7 milioni di euro al mese, che in un anno fa 84 milioni.
Ancora per fare un esempio, il costo di Triton, secondo la Fondazione Ismu, incideva per circa 2 euro all'anno nelle tasche di ogni italiano. Facile fare il conto: 120 milioni di euro.
Sempre secondo la Fondazione Moressa il costo stimato della operazione Frontex, per la quale 15 Stati dell'Ue hanno offerto mezzi e risorse, è di circa 2,9 milioni di euro al mese. Sembra molto difficile arrivare alle cifre di cui ha parlato il governo.

D'altra parte che al fatto che la Ue ci conceda la clausola migranti non sembrava credere molto il presidente del Consiglio Renzi, almeno a giudicare dalle parole che ha usato in conferenza stampa presentando la manovra.

Una dichiarazione che si spiega forse anche con il fatto che quel numero lo hanno messo un po' a casaccio, tenendosi larghi senza aver fatto bene i conti, come forse è successo anche per altri punti della legge di Stabilità.

martedì 13 ottobre 2015

Federalberghi contro Booking.com: le opinioni a confronto

Nei giorni scorsi la Camera ha approvato la legge annuale sulla concorrenza. Tra gli articoli, uno riguarda gli alberghi e i loro rapporti contrattuali con le piattaforme di prenotazioni online, come Booking.com. Aggiunto al disegno di legge con un emendamento promosso da Tiziano Arlotti, un deputato Pd nato a Rimini ed eletto in Emilia Romagna, dichiara "nullo ogni patto con il quale l’impresa turistico-ricettiva si obbliga a non praticare alla clientela finale, con qualsiasi modalità e qualsiasi strumento, prezzi, termini e ogni altra condizione che siano migliorativi rispetto a quelli praticati dalla stessa impresa per il tramite di soggetti terzi, indipendentemente dalla legge regolatrice del contratto". È la cancellazione del cosidetto parity rate, il vincolo che il portale di prenotazioni online chiede all'albergo: vendo le tue stanze se mi prometti di non venderle a prezzi inferiori.
A votare questa norma una ampia maggioranza traversale che comprende Pd, Scelta Civica, Sel, Forza Italia, Al.

Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi, che raggruppa oltre 27mila dei 34 alberghi italiani, esulta: "C'è più libertà. Piu libertà per le imprese, che potranno fare il prezzo che riterranno opportuno, per i consumatori, che potranno scegliere e anche per i portali, che potranno liberarsi di questa rendita di posizione di cui hanno usufruito. Dovranno metterci un po' di pepe in più, e quando succede siamo tutti più bravi. La concorrenza fa bene a tutti".
Insomma, secondo Nucara la norma, quando sarà approvata definitivamente (deve passare al Senato), porterà ad un "mercato più efficiente". Se un albergo vende una stanza a 100 euro con il portale online ne incasssa diciamo 85, tolte le commissioni; se la vende a 90 senza portale ne incassa 90 ed il consumatore spende meno. Sembra funzionare.
Andrea D'Amico, regional director di Booking.com per l'Italia, spiega però che la questione della "rendita di posizione" in realtà era già in parte superata: le autorità antitrust di Svezia, Francia e Italia avevano nei mesi scorsi contestato a Booking.com i vincoli sulle offerte tariffarie e Booking.com aveva a quel punto annunciato che avrebbe rinunciato a tutti i vincoli tranne quello sulle vendite online. “La ragione è quasi ovvia: se un cliente trova online su Booking.com un prezzo e poi ne trova uno inferiore sul sito dell'hotel comprerà lì. Booking.com avrà investito risorse e a trarne beneficio sarà l'albergo, senza pagare alcuna commissione”. Per questo l'autoritàAntitrust italiana il 21 aprile scorso, insieme alle autorità svedesi e francesi, annunciava di accettare gli impegni presi da Booking.com, che avrebbe potuto vincolare gli hotel a non praticare tariffe più basse solo sul poprio sito lasciando loro la possibilità di farlo con tutti gli altri sistemi di vendita, dal telefono al front desk agli altri canali online. Insomma: il cliente se vuole può spendere meno. Ma l'albergo, se vuole avere la visibilità che Booking.com garantisce, deve accettare almeno il limite della vendita dal suo sito. “Gli impegni offerti da Booking.com conseguono il giusto equilibrio per i consumatori in Francia, Italia e Svezia, ripristinando la concorrenza e, al contempo, preservando la fruizione semplice e gratuita dei servizi di ricerca e di comparazione, incoraggiando lo sviluppo dell’economia digitale”, scrivevano i presidenti delle tre autorità.
Non bastava? No.
Risponde Nucara che quello dell'Antitrust è stato solo "un primo timido passo. Il mercato si sta spostando online e dire agli alberghi che non potranno vendere sul loro sito mi sembra anche un autogol. Questo è un confronto impari tra un colosso che muove 40 miliardi di euro all'anno e un signore, l'albergo, la singola struttura, che spara con la pistola ad acqua".

Booking.com è certamente un colosso: 10 mila dipendenti di cui 230 in Italia, 700mila strutture alberghiere nel mondo, 90mila solo in Italia. Ma è un colosso che ha portato lo scorso anno 7 milioni di prenotazioni di stranieri, che sono andati a dormire da altrettanti signori con la pistola ad acqua. Investendo milioni di euro in algoritmi e tecnologia, chiedendo agli albergatori una commissione tra il 15 e il 18 per cento ed offrendo in cambio posizionamento, investimenti in decine di siti (dalle compagnie aeree alle società di noleggio auto) traduzioni in 42 lingue, assistenza al cliente 24 ore su 24. L'albergo non paga nulla fino a quando non c'è una prenotazione. "Pochi ricordano che la parità tariffaria è nata per volontà degli albergatori", ricorda D'Amico. "Nel mondo del turismo prima della rete internet c'erano grossisti che compravano stanze da vendere ai tour operator che a loro volta vendevano alle agenzie di viaggio. Allora le commissioni – anche per il numero degli intermediari - arrivavano al 40 per cento, e soprattutto non c'era alcuna trasparenza sui prezzi. La parità costituiva per gli alberghi la certezza che indipendentemente dal canale di vendita, il prezzo sarebbe stato certo".
È anche vero che parliamo di un altro mondo, come dice Nucara: "Prima c'erano due grandi poli: quello intermediato che era collettivo, fatto di viaggi di gruppo; poi c'era il non intermediato che era per il viaggio individuale. Oggi è diverso, l'individuale è molto spesso intermediato dai portali. Se tutto il mercato è intermediato le commissioni dovrebbero scendere, non salire".

Booking.com ha venduto la prima stanza in Italia all'inizio degli anni 2000, dal 2006 ha cominciato ad operare direttamente sul nostro territorio ed ha costruito la sua rete con il metodo tradizionale degli account manager che andavano a visitare l'hotel per proporre l'ingresso nella piattaforma. Quello che ci si potrebbe chiedere è che interesse avrebbe a rimanere in Italia se la legge passasse anche al Senato. Se il viandante russo cerca da dormire a Poggibonsi su internet verosimilmente lo trova su Booking.com o su qualche concorrente. Trovato l'hotel, va sul suo sito e prenota a prezzo più basso. Perché Booking.com dovrebbe spendere soldi per tradurre in russo le pagine su quell'hotel?
Booking.com non ha comunque intenzione di lasciare l'Italia e Federalberghi ci tiene a sottolineare che non si tratta di una guerra alle Ota, online travel agency: “nessuno vuole la morte dei portali, sarebbe sciocco. So che l'albergatore ha visibilità grazie ai portali, che fanno loro mestiere", dice Nucara.
D'Amico dal canto suo ridimensiona qualche titolo esagerato uscito nei giorni scorsi, quando si è letto della "minaccia di Booking.com" che sarebbe stata appunto "pronta" a "lasciare l'Italia". "Saremmo stupidi se dicessimo che domani ce ne andiamo dall'Italia. Chi ha detto che minacciamo di levare le tende ci conosce poco ed ha anche una scarsa conoscenza di un soggetto che opera in un mercato e fa le sue scelte per business, non per affermare una idea. Anzi, vorrei dire alle strutture italiane che noi non chiudiamo con loro anche se non ci dessero la migliore tariffa. Vogliamo confrontarci, discuterne, trovare soluzioni. Ricordando anche - ce lo disse un sondaggio che commissionammo qualche anno fa - che il 72 per cento delle strutture dichiarava di aver aumentato il fatturato grazie alle Ota. Magari potremmo decidere di investire di più in Spagna piuttosto che in Brasile, ma non ce ne andiamo. E ai consumatori dico che manterremo la garanzia della miglior tariffa", che prevede, da parte di Booking.com, il rimborso della differenza se un cliente trova altrove una tariffa migliore.
L'impressione è che la battaglia di Federalberghi sia stata più simbolica (il turismo del Belpaese contro la multinazionale) che di sostanza. Implicitamente lo ammette anche Nucara: "Questa norma non è la panacea, perché - lo dico agli albergatori - se passa la legge l'albergo sarà più libero di fare il prezzo che ritiene ma se vorrà clienti dovrà investire, fare il sito più bello, avere personale più formato, e il portale dovrà offrire altri servizi.".

Di certo la vicenda ha mostrato che la multinazionale olandese Booking.com, di proprietà della multinazionale americana Priceline, non è riuscita ad ottenere più di 4 voti contro i 434 favorevoli all'emendamento. Scarsini nel fare lobbying? "In Italia Federalberghi è molto potente, evidentemente, visto che in materia di concorrenza non vale quello che dice l'Autorità per la concorrenza e il mercato e la Camera vota quello che dice Federalberghi. Noi confidiamo nel Senato", risponde D'Amico. 
Di certo il mercato in Italia ha potenzialità di crescita notevoli. Abbiamo 2 milioni di posti letto nei 24 mila hotel da tre stelle in su, 700 milioni di notti vendibili all'anno e ne vendiamo solo circa 280 milioni.

"Lo scorso anno si è superato il miliardo e 200 milioni di viaggiatori nel mondo", dice D'Amico. "Visto che nei prossimi anni viaggerà un miliardo di persone in più la priorità dovrebbe essere intercettarne in Italia almeno una parte, possibilmente la più danarosa, per essere venali", conclude Nucara.  

domenica 11 ottobre 2015

Morti sul lavoro, per capire bene le cifre

Oggi l'Anmil, associazione mutilati e invalidi sul lavoro, celebrava in tutta Italia la giornata per le vittime degli incidenti sul lavoro. Nel nostro Paese infatti ogni anno ci sono centinaia di morti sul lavoro e centinaia di migliaia di infortuni sul lavoro. La tendenza però è quella di un costante calo dei numeri. Negli anni Sessanta e Settanta si è arrivati a oltre 3000 morti all'anno. Nel 2010 si superavano i 1400 morti e gli oltre 700 mila infortuni. Nel 2013, per esempio, gli infortuni erano poco più di 600 mila e i morti erano meno di 700.
Oggi l'Anmil ha diffuso i dati e la notizia è che i morti sul lavoro dal 1 gennaio alla fine di agosto sono state 752, contro le 652 dello stesso periodo dell'anno scorso. Per questo tutti i siti e gli organi di informazione hanno parlato di una emergenza che non finisce e di "preoccupante inversione di tendenza".
Il fatto è che pochi sanno che i dati sugli infortuni sul lavoro comprendono tutti i morti in occasione di lavoro, compresi gli "infortuni in itinere".
Si tratta di quelle persone morte mentre si recavano al lavoro o tornavano a casa. A questi vanno aggiunti i morti sul lavoro per incidente stradale, ovvero tutti quelli che stavano lavorando e sono morti in un incidente con l'auto o il mezzo su cui viaggiavano.
Nell'anno 2013 per esempio 216 persone sono morte "in occasione di lavoro con mezzo di trasporto", come dice la statistica Inail. Camionisti, ma anche agricoltori investiti da trattori. Non c'è niente da ridere.
Secondo l'Osservatorio Indipendente sui morti sul lavoro di Bologna in 116 agricoltori sono morti schiacciati da un trattore, quest'anno.
Per tornareal 2013, altre 177 persone sono morte "in itinere con mezzo di trasporto", ovvero appunto per un incidente mentre andavano o tornavano dal lavoro. Ce n'erano poi altre 9 morte "in itinere senza mezzo di trasporto", ovvero mentre andavano o tornavano dal lavoro ma non su una macchina. Investiti, insomma.
Per riassumere parliamo di quasi 400 morti sul lavoro che in realtà sono morti per incidente stradale.
Per tornare all'Osservatorio bolognese indipendente - che per capirci contesta i dati Inail giudicandoli sempre troppo bassi, perché i dati considerano solo i lavoratori assicurati Inail, che non sono proprio tutti -  scrive molto chiaramente che i morti sul lavoro fino ad agosto scorso che non fossero su mezzi di trasporto, cioé al lavoro, sono stati secondo l'Inail 343. Dunque gli altri 410 sono in itinere. Per incidente stradale.
Non si vuole sostenere che siano morti meno importanti, ci mancherebbe altro. Sono morti. E comunque continua ad essere gravissimo che centinaia di migliaia di lavoratori subiscano infortuni anche gravissimi lavorando e che centinaia muoiano lavoando.
E' solo per dire che non è detto che ci sia una "inversione di tendenza". Nel 2014 ci sono state 1107 "denunce di infortunio con esito mortale" come dice la fredda statistica dell'Inail. Di questi, 271 erano "in itinere" e 219 erano al lavoro "con mezzo di trasporto. Quasi la metà. Quest'anno sembra che siano più della metà, come abbiamo visto.
Magari alla fine dell'anno scopriremo che gli infortuni sul lavoro anche quest'anno sono scesi un altro po'. Noi comunque lo speriamo, e semmai aspettiamo titoloni sui morti sull'asfalto.