giovedì 14 dicembre 2017

Banche, perché il campanilismo toscano è peggio della sindrome nimby

C'è una sorta di ottusità toscana nell'atteggiamento di Boschi e Renzi su Banca Etruria. Una ottusità comune per la verità ad altri campanilismi ma particolarmente forte in Toscana, dove il legame con il territorio è una cosa quasi religiosa e l'ottuso attaccamento alle tradizioni locali è un male che procura danni all'economia più della corruzione, della sindrome del nimby e dei Tar che imbrigliano le libere forze del mercato.

Basti pensare al rito primitivo che ancora oggi pervade Siena e i suoi abitanti durante il Palio o all'attaccamento esagerato ad un paesaggio noioso come quello delle colline di quelle parti.

Comunque non è il caso di deragliare sull'antropologia.

Basta elencare alcuni fatti.

1) L'ostinazione con cui Boschi e Renzi ripetono che il governo ha commissariato Banca Etruria è nel migliore di casi sintomo di approssimazione. A decidere di commissariare le banche è la Banca d'Italia. E' vero che formalmente la Banca d'Italia propone e il ministero dell'Economia dispone ma la vera notizia sarebbe un commissariamento proposto da Banca d'Italia e non attuato dal Mef. Insomma: è un atto dovuto o quasi. Rivendicarlo come un merito è un po' naif da parte di entrambi. Ripetere "noi li abbiamo mandati a casa" insomma è davvero un po' naif. Date retta.

2) Boschi non ha fatto nulla di male a parlare con Vegas su Etruria e non avrebbe fatto nulla di male anche parlando con Ghizzoni, qualora l'avesse fatto. Il problema è cosa ha detto, perché quello che sembra chiaro è che lo ha fatto non con l'autorevolezza di un esponente di governo qual'era ma con l'approssimazione di una autorità locale qualsiasi, preoccupata - come una qualsiasi municipalità di un qualsiasi comune toscano o di altra regione - del legame con il territorio della banchetta di paese. E per questo chiedeva a Vegas, che poi non c'entrava nulla, se secondo lui Vicenza andava bene.
Che poi è la stessa preoccupazione che avevano gli amministratori, i sindaci e i presidenti di provincia quando ad Etruria si raccomandava di cercare un interlocutore. Non volevano la Banca Popolare di Vicenza non perché fosse inguaiata - nel 2014 non lo era o nessuno ancora lo aveva ben capito. Non volevano Vicenza perché non avrebbe fatto gli interessi del "territorio". E per questo e solo per questo hanno detto di no. Meglio una banchetta, insomma, anche se poi è andata come è andata.

3) Ha ragione Renzi che questa è diventata un'arma di distrazione di massa. Fin dall'inizio l'attenzione su Etruria è stata decisamente eccessiva, responsabilità delle opposizioni in Parlamento. Il vero tema sarebbe come è il sistema bancario italiano, quali limiti ha. Di questo non si è parlato abbastanza in commissione. Però è anche per colpa di Renzi e dei suoi deputati e senatori, che hanno passato il tempo a cercare di dimostrare che c'è stato un problema di "vigilanza", cioé che la Banca d'Italia ha qualche colpa. Il fallimento delle banchette però non è colpa di Bankitalia né di Vegas né della Boschi né di Renzi. E' colpa degli amministratori delle banchette e della loro illusione di fare senza le fusioni. E' colpa del fatto che esistesse una banca con il nome "banca popolare dell'etruria e del lazio". Oggi, per dire, Cariprato, che fu presa da Vicenza qualche anno fa, è in mano a Intesa Sanpaolo, perché solo così può sopravvivere. Se ne faranno una ragione, i sindaci e presidenti di provincia e i toscani tutti?


sabato 2 dicembre 2017

Orfini e le "bugie" di Bankitalia

Non saprei dire se si tratti di sprovvedutezza da primo della classe o di ignoranza ma trovo in ogni caso molto fastidioso il tono di Matteo Orfini. Oggi in una intervista afferma che "dire le bugie è peccato". Si riferisce alla Banca d'Italia che - dice lui - pensava di affidare alla Banca Popolare di Vicenza il compito di "aggregare parte del sistema" bancario, favorendo l'acquisto di Banca Etruria. E' inquietante, dice Orfini, che Bankitalia abbia potuto considerare una "banca in difficoltà" come la Popolare di Vicenza come possibile ancora di salvataggio per Etruria.

Visto che oggi sono entrambe banche fallite, dirà il lettore, Orfini ha pienamente ragione.

I fatti però sono diversi e per parlare di queste cose bisogna saper bene di cosa si parla. Orfini fa il primo della classe dicendo che "Bankitalia conosce le carte che ci ha consegnato e che sono secretate e nei le abbiamo lette", facendoci pensare a chissà quale segreto. Ma su Vicenza ed Etruria misteri non ce ne sono. Bankitalia disse in tutti i modi ad Etruria, nel 2013, di cercarsi un interlocutore di "adeguato standing", ovvero una banca più grande. Etruria cercò e l'unica che si fece avanti fu Vicenza. Non fu Bankitalia a sponsorizzarla. Bankitalia prese atto che altre offerte non arrivarono. Doveva fermare l'operazione perché c'era stata una indagine su Pop di Vicenza, in particolare sul prezzo dell'azione, quattro anni prima? Davvero Orfini vuol dire questo?

La verità è che Vicenza fu respinta da Etruria. Ma non perché fosse una banca inguaiata. Nessuno lo pensava. Fu respinta perché pretendeva di comprare a poco e non avrebbe "valorizzato" la "territorialità" di Etruria che - come tutte le banchette - è sempre molto attenta al territorio. Ad opporsi a Vicenza furono il sindaco - Giuseppe Fanfani - i sindacati, e ovviamente gli amministratori di Etruria. Dov'è il mistero? Perdipiù quelli che dicono "meno male" non riflettono su un dato: oggi Etruria è fallita. Magari, con quella fusione, non lo sarebbe stato. Certo non sarebbe andata peggio di come è andata.

Non penso affatto che il Pd o Renzi o la Boschi siano responsabili di come è andata a finire Etruria. Penso che i responsabili del disastro di Etruria siano gli amministratori di Etruria. In parte c'entra anche il "territorio", perché la miopia del territorio è sempre un elemento che conta nel destino di queste banchette. In parte anche il fatto che il territorio allora non disse nulla e oggi è invece un grande coro di "dov'era Bankitalia?".

Qualche anno prima Vicenza aveva rilevato un'altra banca toscana finita male: CariPrato, a causa della crisi del tessile e di "certi errori gestionali", come scrivevano i giornali.
Con la banca toscana erano andati a Vicenza anche alcune opere d'arte. "Ridateci Caravaggio", tuonavano qualche anno dopo sindaco, presidente della Provincia, presidente degli industriali.
Addirittura il presidente della Regione Rossi scrisse a Zonin, a proposito delle opere d'arte.
Ma Vicenza nel 2013 era considerata ben messa. E' vero che era stata oggetto di attenzioni dalla Banca d'Italia negli anni precedenti. E' anche vero però che inaugurava una sede a Roma (occasione nella quale annunciava anche l'assunzione di un ex di Bankitalia, tra l'altro) e ne prometteva una a Mosca. E annunciava acquisizioni. Non solo di Etruria.
Chissà, se le cose fossero andate diversamente oggi avremmo avuto un Orfini laudatore del genio imprenditoriale di Zonin.


venerdì 1 dicembre 2017

Le sette notizie del 2 dicembre

Per capire meglio la questione Ilva ascoltate Borraccino

Per capire meglio la questione Ilva è meglio andare oltre lo scontro tra Calenda ed Emiliano e il sindaco di Taranto e i rispettivi tweet. Il DPCM su Ilva risale a settembre e fin da subito le autorità locali hanno chiesto modifiche, in particolare alle prescrizioni che concedono maggior tempo ad Am Investco, la società che ha rilevato Ilva, partecipata in gran parte dalla multinazionale Arcelor Mittal,  per le opere di carattere "ambientale". In gioco c'è anche il potere della Regione, che ha sue normative sulla salute pubblica.

L'oggetto di contesa di questi giorni però riguarda un ricorso al Tar presentato dalla Giunta Regionale della Puglia e dal Comune di Taranto che - a detta del ministro Calenda - rischia di far chiudere Ilva.
Emiliano invita invece a non creare panico e insiste sulla sua posizione


Sicuramente su Ilva a Taranto ci sono punti di vista molto diversi: una grande azienda siderurgica non è comunque una industria a basso impatto ambientale e dunque non potrà mai essere "pulita". Non piace a una parte della città - un comitato genitori ne chiede semplicemente lo smantellamento. Un'altra parte della città la vuole perché vuol dire 10 mila posti di lavoro senza considerare l'indotto. Difficile decidere, insomma.

Detto questo, stupirà scoprire che nel consiglio regionale della Puglia un consigliere di Sinistra Italiana, sicuramente più "a sinistra" di Emiliano dunque, ha presentato un ordine del giorno per chiedere alla Giunta regionale della Puglia di ritirare il ricorso al Tar. Se ne discuteva oggi.
Solo che la sua proposta, una ragionevole proposta di uno che, più che twittare, diceva: discutiamo con il governo e cerchiamo di ottenere qualcos'altro, non è passata. Emiliano ha parlato, poi lungo dibattito, poi sono iniziate le procedure di voto e gran parte dei consiglieri regionali sono usciti dall'Aula. E quelli che erano in Aula si sono astenuti.  Dunque dopo cinque ore di dibattito il voto non c'è stato, per mancanza del numero legale. Così per un'altra settimana si potrà continuare ad andare di tweet.

Il consigliere si chiama Mino Borracino e per capire meglio la questione vale la pena, in conclusione, leggere quello che ha detto, nei giorni scorsi:

"Ribadiamo ancora una volta che, a nostro avviso, l’unica strada concreta che il Governo deve praticare per coniugare il diritto al lavoro con quello alla salute, è quella di espletare, all’interno delle procedure AIA, la Valutazione dell’Impatto e del rischio Sanitario, così come indicato nelle linee guida VIIAS, redatte dalle Agenzie nazionali di Ispra e Arpa, al fine di garantire la tutela di lavoro e salute all’interno delle procedure di Autorizzazione agli impianti a forte impatto ambientale e sanitario.Il Governo, attraverso il Decreto Balduzzi del 2013, escludeva l’applicazione delle valutazioni sanitarie nell’AIA per le aziende Siderurgiche, facendo così un regalo agli inquinatori e impedendo così di valutare l’esistenza di un rapporto equilibrato fra la presenza della produzione di acciaio e la Città di Taranto. Questo Decreto va cambiato e chiediamo al Governo di farlo. Detto questo, non capiamo la posizione ondivaga del Presidente Emiliano che, fino ad ora si è distinto per non sollevare mai questa situazione, nonostante la Legge sulla Valutazione del Danno Sanitario (L.R. n. 21 del 2012) sia uno dei capisaldi della legislazione della Puglia. Un esempio per l’Italia intera, essendo la prima Norma italiana che disciplina questa delicata materia. Ancor più incomprensibile, e anche un po’ grave, ci sembra la mancata applicazione della Legge regionale sulla Valutazione del Danno Sanitario nei confronti dell’Enel, per l’AIA della centrale elettrica di Cerano. Se è vero, infatti, che per il siderurgico la competenza regionale è stata esautorata dal Governo, è altrettanto vero che sulla centrale a carbone di Cerano (altro grande impianto impattante, al centro di polemiche e inchieste sull’inquinamento dell’area di Brindisi) la competenza della Regione Puglia c’è tutta. Come mai il Presidente Emiliano non ha applicato la Legge regionale nel caso dell’AIA alla centrale di Cerano, avendone piena competenza, mentre per l’Ilva di Taranto sale sugli scudi di una polemica con il Governo che rischia solo di produrre ancor più divisione fra ambientalisti e operai, senza offrire una soluzione? Perché il Presidente Emiliano fa la voce grossa quando la competenza nell’applicare le Norme appartiene ad altri Enti, mentre si defila quando la possibilità, se non il dovere, di applicare le Leggi è nelle sue mani?
Non diciamo questo per polemizzare con il Presidente della Giunta regionale, ma per richiamarlo all’impegno che assieme a lui, abbiamo assunto con i Pugliesi. Questo impegno, prevede anche l’applicazione da parte del Governo pugliese delle Leggi regionali in vigore". 

sabato 25 novembre 2017

Chi, cosa e perché: qualche elemento per capire meglio la strage del Sinai

L'attentato alla moschea di Bir-al-Abd,, nel Sinai centro-settentrionale,è certamente il piu' grave atto terroristico dell'Egitto degli ultimi anni: almeno 235 morti e oltre 100 feriti, tutti musulmani, frequentatori di una moschea dove si pratica il sufismo, piuttosto diffuso nella penisola. 
Perché il sufismo non piace ai terroristi che hanno ucciso? Innanzitutto perché è nonviolento per definizione, ha spiegato a Sky News l'analista Mohannad Sabry.

Gli attentatori avrebbero, oltre che uccidere in una moschea, anche dato fuoco a delle auto nelle strade vicine luogo dell'attentato per impedire o rallentare i soccorsi. Avrebbero anche sparato sui mezzi di soccorso. 

Fino ad ora non ci sono state rivendicazioni e anzi nei social network è circolata anche una dichiarazione di estraneità dell'Isis. Secondo altre fonti gli attentatori - molti, almeno 25 o 30 - avevano bandiere nere dell'Isis. 

In ogni caso la presenza dello Stato Islamico nella penisola non è certo una novità. La branca locale si chiama Wilayat Sinai e lo stesso gruppo era noto fino al 2014 come Ansar Beit al-MaqdisSecondo il Tahrir Institute, che offre sul suo sito diverse analisi sulla presenza del gruppo nella Penisola, da Rafah in giu' il gruppo esercita un controllo del territorio notevole. 
Nel febbraio del 2016 proprio militari egiziani nella cittadina di Bir al Abd furono attaccati da un commando armato. Le milizie di Wilayat Sinai inoltre hanno cominciato da tempo ad agire come poteri pubblici, arrestando esponenti delle tribu' locali ed imponendo sanzioni ma anche presentandosi come efficienti governanti delle aree che pretendono di controllare. 

Uno dei rapporti del Tahrir Institute offre altri spunti interessanti per capire meglio la situazione. 

Quanto alle tribu', una analista egiziana ha scritto oggi sul New York Times che il governo egiziano dovrebbe affidarsi di piu' a loro, che conoscono il territorio ed il cui ruolo è importante per prevenire la diffusione della ideologia dell'Isis già così forte. 

Ma è anche possibile che gli interessi concreti delle tribu' e quelli dei propugnatori dello Stato Islamico coincidano, almeno su alcuni punti, molto prosaici, come traffici e contrabbando. 

Una analisi dell'Atlantic Council parla anche di questo aspetto oltre a sottolineare la nascita, due anni fa, di una "unione delle tribu' del Sinai" proprio in funzione anti-islamista. Anche perché, per gli islamisti, le tribu' sono peggio dei seguaci sufi, pre-islamiche forme di organizzazione, in pratica aggregazioni di selvaggi. 

martedì 17 ottobre 2017

Il Pd, Visco, le banche, la Borsa

Nel gennaio 2016 Matteo Renzi, da segretario del Partito Democratico e presidente del Consiglio, disse che Monte dei Paschi di Siena era ormai una "banca risanata" e che investire sarebbe stato un affare.
Con la leggerezza che lo contraddistingue, aggiungeva anche che era un "bel brand". In rete ovviamente si trovano centinaia di commenti, scritti nel corso dei mesi, perché chi avesse dato retta a Renzi oggi avrebbe perso parecchio. Basta dare un'occhiata al grafico. Il titolo tra l'altro è sospeso dal dicembre scorso.


Questo non per dire che il Pd è responsabile di quel che è accaduto a banche come le venete o le casse come Etruria. Ma per dire che Renzi di economia sa davvero poco e non dovrebbe parlarne.

E' vero che su quel che è accaduto alle banche non c'entra niente, il Pd. E anzi il tentativo che in qualche modo il governo Renzi ha fatto, a dire il vero, è stato quello di superare un sistema un po' troppo provinciale, con banchette di provincia che per forza di cose prestavano denaro agli imprenditori della provincia, che avessero o no le garanzie necessarie. Le banche vicine al territorio e gli imprenditori troppo abituati a finanziarsi con le banche e poco con altri mezzi sono un problema del nostro capitalismo da sempre, e non c'entra certo il Pd, non più di tutti noialtri.

Il fatto è che il partito di Renzi non ha al suo interno personalità che si siano mai segnalate per acume e profondità nelle analisi dell'economia. Forse anche, purtroppo, perché lontani dai poteri che contano e abituati al massimo a incontrare consiglieri di amministrazione di banchette, appunto. Il fatto però è che il Pd ha scritto una mozione in cui chiede una qualche "discontinuità" nella governance di Bankitalia, come se lì ci fosse stata qualche sottovalutazione dei problemi delle banche e dei loro collassi. Come se i firmatari della mozione invece sì che avrebbero fatto meglio.

Provo a spiegarlo allargando il discorso. Renzi forse non sa che da un decennio - basterebbe leggere le considerazioni finali dei governatori - da Bankitalia si ripetono poche cose abbastanza facili da comprendere.

Per riassumerle incollerò qui un passaggio di una lectio magistralis di Salvatore Rossi, tenuta pochi giorni fa. Rossi della Banca d'Italia è direttore generale. Sono cose che sa chiunque abbia seguito un po' di economia italiana, anche per pochi mesi. E sono cose che da via Nazionale, lo scrivo di nuovo, ripetono da lustri.

"Il nostro sistema rimane troppo basato sul debito finanziario e troppo poco sul capitale di rischio; le banche continuano a giocarvi un ruolo eccessivo, che si ritorce loro contro, rendendole più vulnerabili nelle fasi negative del ciclo economico. Le nostre imprese ricorrono al capitale di rischio solo per il 46 per cento del loro passivo totale, contro il 53 della media dell’area dell’euro. Il credito bancario rappresenta oltre il 60 per cento dei debiti finanziari delle imprese, mentre nella media dell’area dell’euro esso non supera il 40 per cento e negli Stati Uniti e nel Regno Unito un terzo". 
"Le cose si fanno ulteriormente problematiche quando un sistema finanziario basato sulle banche si sviluppa in presenza di pratiche contabili poco trasparenti e di un sistema giudiziario sbilanciato a favore della tutela dei debitori ma inefficiente nel cogliere questo suo stesso obiettivo, ad esempio a causa della lunghezza dei processi. In una tale situazione si afferma e si consolida un sistema di relazioni strette banca-affidato atto a finanziare essenzialmente investimenti tradizionali, quindi visibilmente meno rischiosi, in attività fortemente “tangibili” (capannoni e macchine piuttosto che conoscenza e tecnologia). Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, uno stimolo forte verso un ritmo di crescita dell’economia più alto e duraturo può venire da una trasformazione più decisa del nostro sistema finanziario, con più mercato e più soggetti finanziari istituzionali diversi dalle banche. Queste ultime possono solo giovarsi di un ridimensionamento e di un cambiamento del loro ruolo: è solo dimagrendo e cambiando in parte missione che molte banche italiane  possono innalzare la propria redditività, la cui esiguità media è in questa fase forse il loro principale problema. Occorre che in Italia i termini “sistema finanziario” e “sistema bancario” non siano più sinonimi". 
"L’intermediazione bancaria gioca un ruolo fondamentale nel processo di allocazione delle risorse di un’economia, ciò è innegabile. Ma dobbiamo tenere conto di due lezioni offerteci dalla storia. La prima è che l’intermediazione bancaria è un gioco che può diventare rischioso, a prescindere dalle buone intenzioni dei giocatori e dalla perizia dell’arbitro. Le crisi finanziarie divengono davvero nefaste per l'economia quando, indipendentemente dal punto d'origine, coinvolgono direttamente il settore bancario. La leva finanziaria degli intermediari crea inevitabilmente un potente meccanismo di amplificazione degli shock economici. La seconda lezione è che una coesistenza equilibrata di mercati e intermediari rende più stabile il flusso di credito per l’economia reale. Nei paesi con mercati obbligazionari sviluppati, come gli Stati Uniti, il deleveraging bancario generato dalla crisi del 2008-9 è stato in parte compensato da un maggior ricorso delle imprese al mercato. In Italia, la riduzione del credito concesso dalle banche negli anni 2012-2014 è stata causata dalla recessione e poi dalla crisi europea dei debiti sovrani, quest’ultima avendo drasticamente ridotto il funding interbancario e a sua volta approfondito e prolungato la recessione; la compensazione con emissioni obbligazionarie non è avvenuta se non in forma molto più tenue ed è stata limitata alle aziende medio-grandi; l’uscita dalla recessione ne è stata rallentata". 

Il problema è tutto qui. Non è un problema di banchieri avidi che vendevano titoli tossici a pensionati toscani o veneti. Il problema è in queste parole, semplici semplici. 

Quanto alle vicende specifiche, ricordo anche che sulla vicenda di Etruria e delle altre banche fallite con i loro risparmiatori Bankitalia, fatto piuttosto inedito, fece addirittura un "domande e risposte", spiegando cosa ha fatto, cosa poteva fare e cosa non poteva fare. E' utilissimo rileggerlo, magari alla luce dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta che sta lavorando sull'argomento. 

E' utile anche sapere che la Banca d'Italia, e pure questo è piuttosto inedito visto il ruolo e il riserbo della istituzione, ha pure creato una rubrica nel suo spazio media che si chiama "E' vero che". Consiglio a tutti, compresi i deputati Pd firmatari della mozione, di andare a leggerlo. Si imparano altre cose. 

Infine, segnalo una interessante intervista che il governatore Ignazio Visco ha concesso pochi giorni fa al Wall Street Journal. Parla di Bce, del Quantitative easing e anche di Italia. Spiega per esempio che da noi che il debito privato è molto inferiore ad altri Paesi europei. 
A un certo punto afferma anche che sulla crisi delle banche - come le venete - Bankitalia sostiene il governo attraverso i suoi consigli. 

Vediamo se il governo mostrerà di aver apprezzato i consigli e sosterrà il Governatore. 


giovedì 12 ottobre 2017

Alcune cose da sapere su Cesare Battisti

Su Cesare Battisti ogni tanto c'è un certo affollamento di articoli di giornale. In genere però sono tutti uguali l'uno all'altro, pieni di dettagli inutili e penosamente vuoti di elementi per comprendere la notizia che si vuole dare.
Una cosa che per esempio mi è sempre rimasta impressa è che un pentito, l'accusatore principale di Battisti, membro dei Pac come lui, raccontava a un certo punto che Battisti era uso calzare i camperos perché così sembrava più alto.
Questo dettaglio secondo me è molto più utile di tante analisi, per dire chi è Battisti.
(Chi non sa cosa siano i camperos vada su google).

In questi giorni, di Battisti, c'è una frase nei titoli: se mi rimandano in Italia mi mandano alla morte. Una cosa del tutto priva di senso, che non aveva senso dieci anni fa e neppure quaranta anni fa, perché ormai stiamo parlando di fatti che risalgono a quasi 40 anni fa. Neppure allora Battisti rischiava la pelle, in carcere.

Tanto è vero che  suoi complici finiti in galera sono - probabilmente tutti  - fuori da un pezzo. E lo sarebbe anche lui se non fosse così terribilmente incline alla lagna.

Dunque sicuramente durante gli anni del terrorismo non vigeva uno Stato di polizia, sicuramente. Altrettanto sicuramente però la legislazione dell'emergenza sacrificò pesantemente alcuni diritti di difesa e alcune garanzie fondamentali. E' bene ricordarlo.
Non c'era la dittatura però storie di botte piuttosto pesanti in carcere ce ne sono.
Le denunciarono in pochi e ancora oggi in pochi se ne ricordano, ma ormai che ci siano state è un fatto.
E' un fatto pure la storia di una specie di torturatore specializzato, un "professore".

Da sempre Battisti dice che vorrebbe tornare in Italia ma "non può". Nel senso che se torna deve andare in galera, ovvio. "Non posso negare di essere stato un membro" dei Pac, dice in una intervista del 2012 a Le Iene.
"Ho fatto uso delle armi", dice ma "non ho mai pensato di uccidere qualcuno", frase abbastanza ridicola perché dice anche che in quegli anni tutti volevano fare la rivoluzione con le armi. In ogni caso Battisti è stato condannato per quattro omicidi.

Uno di questi omicidi è quello del gioielliere Torregiani, che il suo gruppo decise di uccidere perché qualche giorno prima - mentre tentavano di rapinarlo - il gioielliere aveva ucciso un rapinatore. Durante l'azione contro Torregiani rimase ferito il figlio Alberto.
E' bene sapere che si tratta dell'uomo in sedia a rotelle che appare in tv ogni volta che si parla di Battisti. Non è stato ferito da Battisti né dai Pac ma dalla pistola del padre, che sparò.

E' bene inoltre sapere che le sentenze affermano che quell'omicidio fu opera di altri esponenti dei Pac ma non di Battisti, che è stato condannato come "ideatore" del delitto.

Battisti secondo le sentenze ha invece commesso altri omicidi.  Per esempio uno, quando fu ammazzato un poliziotto, l'agente Andrea Campagna, definito "torturatore", che era semplicemente un autista visto in tv mentre portava a San Vittore alcuni complici di Battisti e company.
Fu ammazzato da Battisti, secondo la sentenza. E  - secondo il racconto dei suoi complici - portava quei famosi stivaletti camperos. Per sembrare più alto.

domenica 8 ottobre 2017

Arrestato il fratello del terrorista di Marsiglia

Ormai da un po' anche gli arresti si annunciano via Twitter
Così stasera a un certo punto si è visto questo



Uno pensa che la Polizia di Stato, evidentemente, considera certa la complicità di Anis con Ahmed.  L'arresto è avvenuto ieri a Ferrara su mandato di cattura internazionale emesso dalla Francia. Oggi presso gli Uffici del Dipartimento di Pubblica Sicurezza di Roma verranno resi noti i dettagli della operazione e vedremo anche in cosa è consistita l'indagine.

Intanto ieri  il Corriere della Sera pubblicava una interessante intervista con l'ex moglie di Ahmed Hannachi, Ramona Cargnelutti che purtroppo non ha avuto una grande eco. Viene da pensare che dipenda dal fatto che non dà grandi spunti a prese di posizione forti: non dice nulla dell'Islam, della democrazia, dell'Isis, del terrorismo. Proprio per questo però è utile, e fornisce informazioni utili.

Un giornalista del quotidiano milanese è andato nel villaggio tunisino in cui la donna vive con il suo nuovo compagno. Ramona ha lasciato Aprilia e se ne è andata in un posto sperduto della Tunisia, magari per ricominciare a vivere. Ha lasciato ad Aprilia i problemi di droga e vive in un posto così senza velo, anzi senza essere musulmana. E dell'ex marito dice: "Ma quale jihadista! Ahmed era solo uno con molti problemi. Della religione non gli è mai fregato niente". Secondo lei neppure le due francesi accoltellate al grido di Allah è grande non suona. Secondo lei voleva rubare le loro borsette e poi l'ha buttata in caciara.
E ancora: "questa cosa dell’Isis è impossibile. Non era da lui. Non l’ho mai visto entrare in una moschea. Ad Ahmed piaceva vestirsi bene, andava in discoteca, beveva. Aveva tutto, anche gli effetti della droga sul cervello".

Non dice nulla, forse, e probabilmente non è un ritratto contraddittorio con la realtà di un Ahmed convinto islamista. Anche se è rassicurante perché umano, appartiene al novero delle cose che si possono comprendere, errori ed orrori compresi, senza bisogno di scomodare scontri tra civiltà, anzi, con la piacevole consolazione di pensare che siamo - Ramona, Ahmed, il Corriere - nella stessa civiltà, proprio la stessa.



mercoledì 2 agosto 2017

Ddl concorrenza, Federalberghi, Booking e la stanza da ridecorare

Il ministro Franceschini e Federalberghi esultano perché nella legge sulla concorrenza c'è anche una piccola norma che riguarda gli alberghi. Non sarà possibile vietar loro per contratto di offrire sul loro sito internet prezzi più bassi di quelli offerti dalle OTA, le agenzie di viaggi online, ovvero Booking, Expedia eccetera.

Sarebbe una vittoria secondo Federalberghi perché darebbe vantaggi ai consumatori - che così potranno spuntare prezzi più bassi - all'erario e alle imprese.

Fino ad ora gli alberghi potevano praticare prezzi più bassi di quelli da loro indicati sulle OTA ma solo per telefono, per email o al cliente che entrasse nell'hotel per chiedere se c'è una stanza libera. O ai clienti fidelizzati, per esempio con una tessera.

Non potevano farlo via internet per una ragione secondo me elementare: Booking o Expedia o qualsiasi altra OTA vende quella stanza su internet e si prende una commissione se il viaggiatore prenota.
In cambio offre all'albergatore una serie di servizi. Il primo che mi viene in mente è che ha una capacità enorme di raggiungere il cliente ovunque, è tradotto in decine di lingue, consentendo in questo modo al turista lituano di incontrare il Bed and Breakfast del Pollino, al cinese di trovare un agriturismo nelle Marche. Dà una visibilità agli alberghi che altrimenti non avrebbero mai avuto.

Ovviamente si fa pagare una percentuale, che scatta solo se il turista prenota via OTA. Molti di noi turisti ormai navigati usano Booking per avere informazioni sui prezzi e poi telefonano alla struttura, che volentieri ci applicherà un prezzo più basso di quello che vediamo sul sito perché non dovrà pagare la percentuale. Conviene a noi e a loro. Ma Booking sicuramente lo sa e conta su tutti quelli che prenotano direttamente sul sito, che sono tanti. Non importa se lo fanno solo una volta, evidentemente è un guadagno notevole per le OTA e secondo me andava bene a tutti.

Non bastava questo? Troppo avide le multinazionali? Non bastava trattare sulle percentuali, chiedere a Booking di abbassare i prezzi e continuare ad usufruire di una visibilità molto grande?

No, sostengono gli alberghi, perché "si proibisce agli alberghi di pubblicizzare un prezzo più conveniente". Ma non è vero. Possono vendere a prezzi più bassi e pubblicizzarlo, per esempio inviando mail ai clienti. Ripeto: gli alberghi non possono farlo su internet perché non si capisce altrimenti che interesse avrebbero le OTA a pubblicizzare quell'hotel. Che motivo avrebbero? Mettono in vetrina il bed and breakfast di Pienza e poi il turista va sul sito del b&B e prenota?

E soprattutto: a che serve agli hotel pubblicizzare sul loro sito prezzi più bassi? Davvero a Federalberghi pensano che un piccolo o anche un grande albergo italiano possa essere "visto" nella rete, nel mondo, dai  turisti che cercano una stanza dall'altra parte del mondo. Che possa fare "concorrenza" ai giganti del web?

Sembra davvero una battaglia ideologica. Per ora Federalberghi promuove una iniziativa pure lodevole che si chiama Book direct, prenota senza passare per le agenzie, con un simpatico logo europeo disponibile in molte lingue. Ma si tratta semplicemente di un logo scaricabile, un distintivo. Prima, su quel sito, il turista deve arrivarci.

Poi c'è l'altro argomento ideologico, il fatto che in altri Paesi europei la parity rate è stata già abolita. Ma parliamo di 4 Paesi europei e della Turchia. C'è la Francia, il cui senso per la libera concorrenza non è mai stato brillante. E poi la Germania e l'Austria. Insomma: non mi sembra un argomento fortissimo

In ogni caso lo sanno anche a Federalberghi che ora la sfida per gli alberghi è aperta: non basta una legge, si deve investire, fare in modo che il cliente arrivi sul sito dell'albergo da solo, e per far questo il sito deve esser fatto bene, l'albergo deve essere capace di attrarre, il personale e i manager capaci di fare il loro lavoro.
Ma - mi chiedo -  se gli alberghi non saranno stati capaci di fidelizzare almeno i loro clienti - per esempio inviando loro mail, coinvolgendoli in programmi di fidelizzazione, perché il turista arrivato la prima volta con Booking prenotasse direttamente con loro dalla seconda volta in poi - perché dovrebbero essere capaci di raccogliere questa sfida?

Le OTA probabilmente se ne faranno una ragione. Federalberghi festeggia e magari proverà ora ad inventare un prodotto tipo italyhotels. Un po' meglio, magari.

Se chiedo una stanza al Plaza di Roma per questo fine settimana ItalyHotels me la offre a 210 euro, Booking a 208. Io sono andato su Trivago e l'ho trovata a 184, con Roomdi.

Poi, in verità, stasera sul sito dell'hotel la trovo a 170 euro ma - ed è il sito di un cinque stelle - c'è una didascalia inquietante. "Camera da ridecorare".
Eccola:


Che vorranno dire? Io mi spaventerei di prenotare una "camera da ridecorare" a 170 euro. Lo so, sarà una vecchia didascalia, ma se questo mi deve dire quanto sono capaci e intraprendenti gli albergatori italiani, pronti alla sfida e alla concorrenza, siamo messi male.
E giuro che il nome dell'hotel l'ho scelto veramente a caso.


venerdì 14 luglio 2017

Che succede in Nigeria, a partire da una intervista a Descalzi

Interessante intervista all'Amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, oggi su La Stampa.

Descalzi dice cose ragionevoli, con semplicità, anche se a volte - per essere l'Ad della multinazionale italiana più importante al mondo - rischia l'effetto "vecchia analisi marxista".

Per esempio quando dice che lo sviluppo postcoloniale "ci ha visti andare, esplorare e sfruttare i campi petroliferi, però esportando tutta la materia prima. Abbiamo lasciato l’Africa senza energia, dunque senza sviluppo e diversificazione industriale".

Per fortuna non ha fatto il discorso della canna da pesca o dell'aiutiamoli a casa loro.

Comunque Descalzi dice che Eni ha capito che è meglio rinunciare a un po' di profitti oggi per costruire modelli più sostenibili di sviluppo. Dice che in Libia lo stanno già facendo anche se - oggi - lasciare gas alla Libia vuol dire lasciarlo ad un Paese che non è certo un modello di stato di diritto.

Dice che stabilizzare la Libia è giusto ma non è per niente facile, e che dunque le migrazioni - che lui chiama "problema esistenziale" - continueranno come uno tsunami.

Per investire in energia in Africa, anche da parte delle multinazionali, ci vuole uno Stato che garantisca il funzionamento del business.

Prendiamo la Nigeria.

Per ora questo Paese, quanto alla possibilità di fare affari, è messo male - almeno stando al rapporto Doing Business della Banca Mondiale. Ha guadagnato una posizione rispetto all'anno scorso: è al posto 169 invece che al 170.

E tuttavia leggendo il rapporto si scopre che in Nigeria, perlomeno, l'accesso al credito è molto più facile che in molte altre parti del mondo. L'Italia, nella classifica sull'accesso al credito, è al 101esimo posto. La Nigeria è al 45esimo, anche grazie a riforme puntalmente segnalate nel rapporto. Solo che il numero di persone e di aziende che accedono al credito bancario sono un decimo di quelle che usano le banche nei Paesi economicamente avanzati.

Inoltre diversi segnali, piccole tensioni che da mesi si leggono sulla stampa locale, non sono incoraggianti. La Nigeria ha già vissuto momenti drammatici cinquant'anni fa, quando la parola Biafra era sulla bocca di tutti. Oggi il rischio di una guerra civile secessionista, di uno scontro tra i nigeriani del nord e quelli del sud, tra gli Igbo che vorrebbero un loro Stato e gli hausa che vorrebbero la Nigeria unita. Ma che in alcuni casi cacciano gli Igbo rimandandoli in quello che una volta era il Biafra.

Dopo la stampa locale, anche Al Jazeera ha parlato di queste tensioni.

Se anche i nigeriani, da "migranti economici", diventassero richiedenti asilo che fuggono da una guerra il "problema esistenziale" rischia di diventare europeo.




sabato 8 luglio 2017

Migranti albanesi, uno su cento ce la fa

Qual è il Paese che in percentuale ha avuto il più drastico aumento di richiedenti asilo in Europa nell'ultimo anno? E' il Venezuela. Rispetto al primo quadrimestre del 2016, nel primo quadrimestre del 2017 le persone che hanno chiesto asilo in uno dei 28 Paesi europei è salito di oltre il 500 per cento. Negli ultimi 12 mesi sono stati oltre 7000 venezuelani.
Facile capire perché. se vi è capitato di leggere qualcosa sul Venezuela negli ultimi tempi.

I dati sono di Eurostat e la classifica vede ai primi posti i siriani, gli afghani, i nigeriani, gli iracheni, i pakistani, gli eritrei. Queste sei popolazioni totalizzano oltre 600 mila persone che negli ultimi dodici mesi hanno chiesto asilo in Europa. 

Al settimo posto, a sorpresa per qualcuno, c'è l'Albania. Quasi 28 mila albanesi infatti hanno chiesto asilo in Europa. Precisamente in Germania. 

Tra il 2015 e il 2016 infatti moltissimi albanesi sono arrivati in Germania attraverso il passaggio balcanico. Sono arrivati lì via terra, insomma, anche se la Merkel non risulta abbia chiesto aiuto e solidarietà all'Italia.  

Gli albanesi hanno continuato a tentare di chiedere asilo anche dopo che la Germania, nel 2015, decise di dichiarare "Paese sicuro" l'Albania proprio per mettere in chiaro che quasi tutte le domande sarebbero state rifiutate. Infatti sono stati moltissimi gli albanesi rimpatriati. E tuttavia, come ha detto un commentatore albanese nell'articolo sopra citato, Roland Lami, "l'istinto di sopravvivenza è più forte del potere della ragione". "Se la gente vive in condizioni di povertà assoluta deve sopravvivere e la necessità di farlo supera di gran lunga il calcolo razionale sulle possibilità di conquistare il diritto d'asilo in Germania".

Nel caso degli albanesi non c'è un pull factor, non ci sono scafisti senza scrupoli, non ci sono ong buoniste e governi imbelli, perché - appunto - i tedeschi li rimandano a casa in massa. 

E tuttavia gli albanesi continuano a provarci. Perché la realtà è parecchio testarda. E dunque albanesi, ma pure serbi, kosovari, macedoni continuano a provarci, anche se i i numeri dicono che l'1 o il 2 per cento ottiene l'asilo. E' comunque meglio che uno su mille, come diceva una canzone. 

Ps: un'altra popolazione che in percentuale è salita parecchio per numero di richiedenti asilo in Europa è quella turca. Negli ultimi dodici mesi sono stati più di 11 mila. Pure questi via terra, tanto per non parlare solo di Mediterraneo. 


domenica 2 luglio 2017

Il referendum costituzionale in Mali

Mentre arrivava all'aeroporto di Bamako per un vertice del gruppo cosiddetto G5 Sahel (ovvero i 5 Paesi dell'Africa sub-sahariana Niger, Mali, Mauritania, Chad e Burkina Faso, gruppo di cooperazione che condivide anche un impegno militare per fronteggiare i gruppi jihadisti nell'area) il presidente francese Macron trovava due sorprese.

Macron è andato a Bamako per promettere l'impegno economico e militare francese nell'area. Soldi e mezzi per continuare a combattere il terrorismo nelle ex colonie.

Mentre atterrava veniva diffuso in rete un video senza data che mostrava sei ostaggi occidentali rapiti da anni - uno addirittura dal 2011 - nell'area, tra Mali e Burkina Faso. Il video sarebbe stato diffuso da un gruppo che si autodefinisce "di sostegno all'Islam e ai musulmani" e  che sarebbe nato dalla recente fusione dei gruppi jihadisti: Ansar Dine, Al Mourabitoun ed Al Qaeda nel Maghreb Islamico.

Come se non bastasse, prima che il presidente francese arrivasse, in migliaia hanno manifestato a Bamako contro un referendum costituzionale.

Tra una settimana infatti in Mali era previsto il voto su un referendum costituzionale che - oltre a contenere gli accordi di pace con i gruppi del Nord secessionista - contiene un forte accentramento di potere sull'attuale presidente. Il referendum è fortemente contestato e non è detto che vada bene per Keita. Per ora gli oppositori hanno ottenuto un rinvio proprio perché il Paese non è esattamente controllato tutto dal potere centrale. Ma ne chiedono l'annullamento.

Sugli ostaggi Macron ha detto parole nette. Sul referendum non si è espresso ma ha appena rinnovato l'impegno militare del suo Paese in Mali.

giovedì 29 giugno 2017

Il mio visto Almaviva a Tobruk

Dal Lybia Herald leggiamo che l'ambasciata italiana si appresa ad iniziare il rilascio di visti Schengen a Tobruk. Dovrebbe cominciare dal 9 luglio. Vi sembra strano? Lo ha annunciato via Twitter la stessa ambasciata
La notizia è confermata da un lancio di Agenzia Nova che cita il sottosegretario agli esteri Mario Giro. Giro dice che l'apertura di un ufficio visti a Tobruk è “molto importante e in questo momento è un modo per far vedere che l’Italia è presente in tutto il paese, non solo a Tripoli”. Sarebbe merito dell'ambasciatore Giuseppe Perrone che “è riuscito in questi ultimi tempi ad avere una buona interlocuzione anche a Tobruk, dove va continuamente e regolarmente”. Dunque preso "anche i cittadini dell'Est" libico, come ha annunciato anche Alfano, potranno presentare la domanda di visto per l'Italia attraverso questo sportello. Si informa anche che un visto di ingresso costa 590 dinari (circa 390 euro secondo il tasso di cambi odierno). Agenzia Nova scrive anche che "per la ricezione e consegna delle domande l’ambasciata si avvale della collaborazione della società di esternalizzazione dei servizi Almaviva Visa Service". 

Le parole di Alfano si ritrovano anche in un lancio di Ansamed.

Sarà che l'inglese è più essenziale, ma l'articolo del Libya Herald con meno parole spiega molto di più:
"Italy already has an honorary consul in the town and there is also an office of the outsourcing company Almaviva who would collect visa requests". 

I rimpatri dei "migranti economici"

Il Washington Post racconta oggi la storia di migliaia di rifugiati nigeriani rimpatriati a forza dal Camerun

Il quotidiano cita casi di altri Paesi come il Kenya e il Pakistan. Paesi poveri che spesso ospitano rifugiati in numero ben maggiore rispetto a quelli che devono sostenere i Paesi occidentali. La maggior parte dei profughi infatti finisce in campi nei Paesi vicini. Gli africani che arrivano in Europa sono la sparuta minoranza di quelli che scappano da guerra, fame, carestia, persecuzioni etniche o religiose, miseria. La gran parte della popolazione siriana scappata dalla guerra è finita in Libano o in Turchia, non certo in Europa. Solo che oggi anche questi Paesi cominciano ad avere problemi ad ospitarli. 

Dall'articolo del Washington Post: 

“Poorer countries hosting huge numbers of refugees for many years, such as Kenya, Pakistan and Turkey, have recently pushed back hundreds of thousands of refugees and asylum seekers,” dice Gerry Simpson, un esperto in migrazioni di Human Rights Watch. “They seem to be taking their lead from richer countries, such as Australia, the E.U. and the U.S., who are pulling out all the stops to limit refugee arrivals.”

Nell'articolo si citano anche le smentite del governo del Camerun, che nega rimpatri forzati.  Ma si citano anche i problemi di convivenza tra i rifugiati e la popolazione e l'attesa di maggior aiuto e assistenza da parte degli organismi internazionali, a partire dall'Onu. Anche in Africa, insomma, il tema è lo stesso che da noi.  

mercoledì 28 giugno 2017

"Guilty? I feel proud". Ecco un "trafficante di uomini".


Sul sito di Al Jazeera trovate un bellissimo servizio con intervista ad un uomo, Mohammed Lamine Janneh, che si autodefinisce "mediatore".

E' uno che organizza il viaggio dal Gambia all'Europa per tanti disperati (hopeless, li definisce) che tentano di arrivare in Europa. Non si considera un essere spregevole né pare sia considerato spregevole da quelli che si rivolgono a lui. Che anzi lo considerano un eroe.

Da quel che dice ha una rete di contatti che consentono ai suoi clienti di andare da Banjoul, la capitale del Gambia, all'Italia. Spesso non si fermano da noi, dice, perché preferiscono andare in Germania, in Svezia, Finlandia, Svezia. Si fa pagare 2000 dollari, e questi soldi gli servono per pagare i vari suoi uomini lungo il percorso: Mali, Niger, Libia. Il percorso in Libia è quello più pericoloso e capita che i suoi clienti vengano rapiti dagli arabi ("those arabs..."). Che, dice, chiedono altri soldi.

Lui dice che nessuno dei suoi clienti è morto in mare. Dice anche che i suoi clienti più anziani, arrivati in Europa prima, gli servono per aiutare i nuovi arrivati e che ha una discreta reputazione.
Vale la pena di guardarlo tutto. 


Immigrazione, sull'Europa che "si volta dall'altra parte"

Spieghiamo alcune cose sul tema immigrazione e sull'Europa che volgerebbe il suo sguardo altrove rispetto alla povera Italia invasa da migranti.

1) Le imbarcazioni che salvano gente in mare sbarcano nel porto più vicino (in un porto sicuro) secondo le regole internazionali. Non c'entra neppure l'Europa, c'entrano le regole del mare. I porti spagnoli e francesi sono molto più lontani di quelli italiani. L'alternativa è che le Ong non raccolgano i migranti dai barconi al largo della Libia. Il rischio è che al primo naufragio o al primo bambino morto su una spiaggia il sentiment collettivo diventerà: perché non li abbiamo salvati?

2) Nel settembre 2016 Parlamento Europeo e Consiglio adottarono un regolamento sulla nascita della Guardia Costiera Europea (REGULATION (EU) 2016/1624 OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL) che conteneva previsioni precise anche su questo argomento.
Per esempio:

"Where a Member State faces specific and disproportionate migratory challenges at particular areas of its external borders characterised by large, inward, mixed migratory flows the Member States should be able to rely on technical and operational reinforcements. This should be provided in hotspot areas by migration management support teams. These teams should be composed of experts to be deployed from Member States by the Agency and by EASO and from the Agency, Europol or other relevant Union agencies. The Agency should assist the Commission in the coordination among the different agencies on the ground. 

Member States should ensure that any authorities which are likely to receive applications for international protection such as the police, border guards, immigration authorities and personnel of detention facilities have the relevant information. They should also ensure that such authorities' personnel receive the necessary level of training which is appropriate to their tasks and responsibilities and instructions to inform applicants as to where and how applications for international protection may be lodged". 

3) All'Italia che lamenta "l'egoismo" dei Paesi europei che non si prenderebbero i migranti che noi vorremmo mandare vale la pena di ricordare i numeri. Al 7 giugno scorso - dati della Commissione Europea - noi abbiamo chiesto di ricollocare circa 12 mila persone  e di queste ne sono state accolte circa 6000.





L'ultima cifra che vedete è quella delle persone che ogni Stato dovrebbe accogliere. L'Italia, insomma, deve ancora chiedere ai Paesi  europei di accogliere. E' ancora in credito. Siamo lenti. Sono lenti gli altri a prenderli, siamo lenti noi a inviarglieli. E in ogni caso parliamo di 35 mila persone.
In Germania lo scorso anno sono state esaminate oltre 700 mila richieste di asilo. Supponiamo siano arrivati lì in molti modi, non solo perché chiamati dalla Merkel. Supponiamo che siano passati anche dall'Italia. Non ci risultano appelli della Germania all'Italia, nonostante la Siria sia molto più vicina.



giovedì 22 giugno 2017

Allarme immigrazione: dove ho già sentito questo discorso?

Non è la prima volta che l'Italia si trova a fronteggiare flussi migratori. Come ha giustamente scritto Mario Sechi nella sua List quotidiana, l'impennata dell'ultimo lustro dipende in gran parte dalla situazione libica, priva di un regime che controlli i flussi verso l'Europa da qualche annetto e in mano a bande criminali che probabilmente sono le stesse che in vario modo gestivano le armi prima, ma ora lo fanno l'una contro l'altra.

Anche se Sechi sa che i numeri da lui citati sono quelli dei "soccorsi in mare", sono quelli che servono al governo per spiegare che l'Europa gli deve concedere quasi cinque miliardi di manovra perché gestire gli stranieri costa. Che poi costi tanto, ho provato a confutarlo qui.

Insomma: come è noto in Italia si arriva anche via terra, come è successo per anni con il passaggio dai Balcani.

Comunque gli stranieri sono arrivati dal mare anche nei decenni scorsi.

Ma torniamo alla Libia. Che si possa occupare militarmente è difficile. Difficile anche ripristinare lo status quo ante. Inoltre i migranti economici e non che arrivano dalla Nigeria o dalla Costa d'Avorio troverebbero altre strade.

In ogni caso, per consolare quelli che sono molto preoccupati perché l'Italia è costretta da sola a fronteggiare ondate bibliche di gente, forse è utile vedere i soliti noiosi dati e rispolverare una crisi che ormai compie venti anni. Ovviamente non è la stessa cosa, si tratta di una situazione molto diversa. Ma è divertente vedere come politica e informazione in fondo ripetono schemi abbastanza consolidati.
Primo titolo:

Il quotidiano è La Stampa, che meritoriamente ha online tutto il suo archivio gratis che funziona una meraviglia. L'anno è il 1997, siamo ai primi di marzo, in Albania da mesi ci sono proteste sfociate in una vera e propria rivolta contro il governo di Sali Berisha. Arrivano in migliaia in nave e ovviamente arrivano in Italia. Al governo c'è Prodi. Che qualche giorno dopo ovviamente lancia il suo "monito".

Per la cronaca quell'anno - sono dati del ministero dell'Interno - sono state esaminate pochissime richieste di asilo rispetto a quanti albanesi entrarono nel nostro Paese. I dati delle richieste dal 1991 al 2016 li trovate qui e sono utili, anche per vedere come è cambiata la composizione di quelli che arrivano in Italia. Intanto nel 1997, l'anno della rivolta albanese, andò così:

Valeva la pena di appanicarsi tanto? Probabilmente molti furono rimandati indietro. Altri rimasero nel nostro Paese diventando irreperibili come succede alla maggior parte dei richiedenti asilo ma questo non ha mandato l'Italia in malora, pare.

Ma torniamo alla cronaca di quel marzo. Il panico aumenta, e aumentano i titoli. Il ministro dell'Interno di quel governo è Giorgio Napolitano. E naturalmente anche in quel caso il problema è che la gente arriva perché ci sono i "trafficanti di uomini" all'origine e i precursori di Buzzi a casa nostra. Venti anni fa il problema era sempre la parola "indagato", solo che non la pronunciavano Raggi e Salvini ma Sinisi e Napolitano.
Ultima immagine dal ventennio scorso:
Dini era ministro degli esteri.
Non inseriremo in questa cronistoria, che vuol essere solo un divertimento, quello che accadde quell'anno, qualche settimana dopo, ad una nave albanese carica di gente che voleva venire qui. Se volete, su Wikipedia si trova.

domenica 18 giugno 2017

Mali, qualche notizia

Due morti e una ventina di ostaggi forse liberi. 


Questo al momento il bilancio di un attacco terroristico in un luogo di vacanze nei pressi di Bamako, un resort a dieci chilometri dalla capitale del Mali. 

Il governo maliano parla esplicitamentedi attacco jihadista. I militari maliani e quelli della missione Onu Minusma stanno cercando i responsabili. Avrebbero liberato una ventina di ostaggi. Alcuni di loro in un pulmino si sono visti poco fa - le 22,30 ora italiana - sulle tv.

Gli assalitori avrebbero gridato Allah Akbar secondo le testimonianze.

Il presidente francese Macron aveva fatto proprio in Mali il suo primo viaggio fuori dall'Europa, ed era andato a trovare i soldati francesi stanziati a Gao, nel nord del Paese, zona particolarmente delicata per le incursioni di terroristi islamisti, vicini più ad Al Qaeda che all'Isis.

La presenza militare francese nell'intera area non è piccola: 4000 soldati sono impegnati tra Mali, Burkina Faso, Niger, Chad, Mauritania. Tra l'altro proprio in quella occasione Macron aveva invitato caldamente gli altri partner europei a impegnarsi nella lotta al terrorismo in Africa. Si era rivolto direttamente alla Germania ma parlava anche agli altri partner importanti nella Ue.

Che il terrorismo continui ad essere un problema lo aveva detto proprio due giorni fa la stessa missione Onu Minusma, attiva appunto dal 2013 nel Paese.

In Mali c'è un problema di separatismo interno in cui si è innestata la questione jihadista.Ci sono gruppi armati di varia tendenza. Ci sono accordi di pace firmati due anni fa e ancora lontani dal diventare operativi. Quando la Francia intervenne - si ricorderà la distruzione ad opera di terroristi jihadisti di importanti santuari a Timbuktu - sembrò facile.

Oggi, come scrive una analista di Human Rights Watch, si capisce che il pantano in Mali non si risolve solo con i militari. Anzi, i militari del governo legittimo sembrano peggiorare le cose. Si legge nell'articolo: “The jihadists speak a lot about corruption… how the authorities steal, torture and do bad things to us,” one elder said. “Honestly, they don’t need to try very hard to recruit the youth…”.

Il fatto che l'azione si avvenuta non nel tormentato nord ma nei pressi della capitale non è rassicurante. 



Sciopero, come se ne esce?

Con una intervista al Corriere della Sera il senatore Ichino spiega che nel settore dei trasporti sarebbe il caso di sottoporre la decisione di scioperare ad un voto con referendum dei lavoratori. Altrimenti, dice, l'astensione dal lavoro di una piccola minoranza blocca l'azienda e lede gravemente il diritto di tutti gli altri cittadini di muoversi.

Sarebbe ragionevole se non prescindesse da un dato: scioperare non è obbligatorio. Anzi, costa. Se si sciopera per otto ore si avranno in busta paga otto ore in meno di stipendio. Dunque se un sindacatino minoritario indice uno sciopero e poi aderisce allo sciopero una percentuale maggioritaria dei lavoratori, il problema rimane. L'adesione è il referendum, un referendum oneroso direi, visto che si paga per partecipare.

Tanto più che l'ultimo sciopero che tante polemiche ha suscitato era stato convocato rispettando tutte le norme che pure in materia di servizi pubblici essenziali non sono lasche. Era in regola e chi ha scioperato ha scioperato.

Nelle aziende di trasporto le cose sono poi complicate dall'organizzazione del lavoro. Visto che non è il caso che l'azienda chieda al lavoratore se il giorno dopo intende scioperare - perché questo comunque configurerebbe una qualche forma di pressione che la legge vieta (Ichino accenna al tema nella intervista e dice che in fondo si potrebbe fare, mettendola come se fosse un problema di privacy, ma il tema è complicato)  - l'unica cosa che le aziende possono fare è vedere come va la mattina.

Nel trasporto pubblico locale non ho memoria di uno sciopero in cui non siano stati semplicemente chiusi i varchi delle metropolitane, anche perché immagino che non sia facile far andare la metropolitana solo quando c'è qualcuno che guidi i convogli e fermarla quando il guidatore sciopera.

Per i bus, ogni tanto qualcuno passa e la gente si mette in coda alla fermata aspettando l'autista che non ha aderito.

Il problema di fondo comunque è il fatto che i lavoratori scioperano. Su questo un può essere d'accordo o no, si può pensare che facciano una stupidaggine e che la piattaforma sulla quale scioperavano è tutta sbagliata quando non inutilmente prolissa (dalla richiesta di rinazionalizzare i servizi di trasporto al no alla guerra imperialista. Chissà se i ferrotranvieri lo sapevano).

Ma alla fine non c'è modo né sarebbe giusto impedire scioperi anche su questo.

D'altra parte in moltissimi ambienti di lavoro i sindacati sono fortemente minoritari o comunque minoritari. Pensate ai giornalisti: hanno un unico sindacato di categoria e gli iscritti sono circa il 50 per cento tra i contrattualizzati. Eppure quando c'è sciopero dei giornalisti quasi tutti i giornali non escono, nonostante ci siano magari legioni di giornalisti pronti a lavorare.

Su una cosa però Ichino ha ragione: servono norme sulla rappresentanza e la rappresentatività per dare al mondo del lavoro regole un po' più stabili. Non a caso uno dei punti della ridondante piattaforma dei sindacati Slb dei trasporti cita con orrore l'accordo sulla rappresentanza del 2014 siglato tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil.

Solo che quell'accordo è fermo al palo. Come ha scritto qualche giorno fa Enrico Marro sul Corriere della Sera, è vero che ha facilitato tanti contratti di categoria. Ma è anche vero che è fermo anche perché se si tratta di misurare la rappresentatività il problema non è solo dei sindacatini autonomi e dei Cobas dei trasporti.
E' anche dei datori di lavoro e delle prerogative dei loro sindacati, Confindustria in testa.

Una legge sulla rappresentanza e la rappresentatività dei sindacati è tema di cui si parla da venti anni e ancora non vede la luce. Una ragione ci sarà, e se ne riparlerà al prossimo dibattito successivo al prossimo caos trasporti.


sabato 17 giugno 2017

Africa, tre notizie da La Stampa

Tre notizie da La Stampa. La prima è quella dell'incontro tra Merkel e Bergoglio, oggi. I due hanno parlato di Africa, anche perché la Germania ospiterà a luglio un G20 in cui si parlerà soprattutto del continente africano. Un buon segnale.

Prima ancora, tra i pochi politici italiani, è stato Giorgio Napolitano a parlare di Africa ed Europa. L'ex capo dello Stato proprio questa mattina, 17 giugno, firmava una riflessione sullo stesso quotidiano. Il titolo dice molto: il cantiere dell'Europa riparte dal fronte sud.

Napolitano scrive di una nuova attenzione dell'Europa verso l'Africa, specie grazie alla Germania. Segnale che testimonia "l’ampiezza di visione e la concretezza di approcci" evidenziata dalla Conferenza di Berlino per lo sviluppo del Continente africano. Napolitano è consapevole che a determinare questa spinta è sicuramente la "grande ondata migratoria, in particolare di provenienza africana, che ha investito i Paesi dell’Unione europea".

E tuttavia riconosce a Merkel il fatto di aver visto oltre l'emergenza migranti, a delle linee di fondo che vanno oltre l'emergenza: "l’alto tasso di natalità e la giovanissima età media della popolazione africana, specie nell’area sub-sahariana; la straordinaria ricchezza delle fonti di energia, in particolare quelle rinnovabili, di cui dispone il Continente; la possibilità di attrarre ingenti investimenti privati in Paesi grandi e piccoli dell’intera Africa".

Se si guardano i numeri dei migranti arrivati in Italia nei primi mesi di quest'anno, dei 60 mila giunti in Italia fino a fine maggio quasi 32 mila arrivano da Nigeria, Guinea, Senegal, Gambia, Costa d'Avorio, Marocco e Mali. Ovvero dall'Africa sahariana e subsahariana occidentale. Molti di questi passano per la Libia.

Proprio di Libia e di "Fronte Sud" della Nato parla la terza notizia da La Stampa. Si tratta di una interessante intervista a Claudio Graziano, capo di Stato maggiore della Difesa. Il titolo dell'intervista è "L'Italia sarà regista del piano di difesa nel cuore dell'Africa". Dove il fianco Sud è ormai una entità estesa, ben oltre il Mediterraneo meridionale che si intendeva venti anni fa. Graziano parla di penisola Arabica, Medio Oriente, Sahel, Corno d'Africa. Ovvero Nigeria ma anche Somalia e Kenya, Senegal, Mali, Marocco, Libia...

Che la Nato abbia già offerto il proprio impegno sul "Fianco Sud" non è neppure una notizia. Qualche settimana fa Gentiloni ne parlò con il segretario generale Nato Stoltenberg.

Ma anche Graziano sa che i problemi che l'Africa pone all'Europa non si risolvono solo con i militari: "La fascia del Sahel, che è anche la fascia della povertà, è senza dubbio la nuova frontiera del Fianco Sud. Ma i militari possono essere solo una parte delle risposte. Il processo problematico dell’Africa, probabilmente per colpa dell’Europa, è nato molti anni fa. Che in Africa ci fosse un problema, lo sapevamo. Che ci siano milioni di persone potenzialmente in movimento, sappiamo anche questo".

Le agenzie Onu con regolarità impressionante lanciano allarmi. Le persone che si muovono dai Paesi africani e tentano di arrivare in Europa possono morire in mare, come sappiamo, ma anche morire nel deserto, attraversando il Niger. Oppure finire nelle mani di organizzazioni criminali in Libia, come denunciavano proprio ieri la OIM e l'UNHCR.

Chissà che ad Amburgo l'agenda Africa non cominci ad assumere caratteristiche un po' meno declamatorie. Ma con una consapevolezza di fondo. 


PS
Ci aiuta ancora una volta una dichiarazione presa da La Stampa, in un articolo in cui si parla di una ipotetica "coalizione" Parigi-Roma-Berlino per le politiche sull'immigrazione. Al di là delle chiacchiere colpisce una frase dell'Ambasciatrice tedesca a Roma Susanne Wasum-Rainer: "Dobbiamo abituarci a 15 anni di migrazioni come quelle che stiamo vivendo". 

Appunto: la consapevolezza che non si può pensare di fermare il mare con qualche accordo e qualche decina di militari, e che occorre ragionare sul medio-lungo termine. 

Decoro, zingari, immigrati

C'è qualcosa di disturbante nel ciclico ritorno delle polemiche su temi come il decoro urbano, il valore della sicurezza che la sinistra dovrebbe fare proprio perché sono i poveri a chiederlo, i problemi delle grandi metropoli e dei loro cassonetti assediati da mendicanti e rom.

Forse è il già sentito, perché discorsi di questo tipo si fanno da decenni. Sono cresciuto in una borgata romana dove quelli venuti dalle Marche e dall'Abruzzo che si erano costruiti le loro casette abusive odiavano quelli delle case popolari, bollati come ergastolani e malavitosi. Questi odiavano gli stranieri, specie gli albanesi e i romeni. Questi ultimi odiavano gli zingari.

Oggi è tutto uguale. Se parli con un romeno medio oggi ti parlerà male dei rom, se parli con uno del Pd di periferia ti spiegherà che la sicurezza è importante perché le donne non escono più la sera e ti dirà che ci sono troppi immigrati.

C'è qualcosa di disturbante pure nella irritante filastrocca attribuita per sbaglio a Brecht, quella per cui a un certo punto andavano a prendere lui.

Il ministro Minniti ha raccontato in una intervista che una volta, ad una festa dell'Unità nel bolognese, molti anni fa, andò pronto a scodellare i dati sulla sicurezza e sull'immigrazione per dimostrare al popolo che non c'era nessuna ragione per temere di più, che i dati dicevano il contrario, che la criminalità diminuiva e la sicurezza aumentava.

Minniti ha raccontato che quella esperienza lo ha segnato perché lo riempirono di insulti, spiegandogli che loro avevano paura. E da lì Minniti e molti altri hanno capito che la percezione conta, che non basta illuministicamente andare nelle borgate a raccontare come stanno le cose. Mi disturba molto anche questo mantra perché i numeri sono numeri e la percezione, se percepisce una cazzata, è percezione di una cazzata. I reati non sono aumentati, la violenza nelle metropoli italiane è praticamente zero rispetto a tante altre metropoli europee per non parlare di quelle Usa. Se si sta stretti sugli autobus è perché ci sono pochi autobus, non troppi immigrati. Ché se a Roma che ha milioni di abitanti è un problema qualche migliaio di persone, fossero pure 10 mila, il problema è di Roma, non degli immigrati che ci arrivano.

C'è qualcosa di disturbante in tutte queste chiacchiere perché alla fine il modello per cui uno si sente tranquillo è quello che fa piazza pulita, nelle città, di tutto quello che rovina il quadro.

Gli ambulanti con le loro merci da due lire, le zingare sulla metropolitana, i suonatori di strumenti vari, i lavavetri, i barboni che stanno nelle stazioni, quelli che fanno i loro bisogni in mezzo alla strada, gli ecuadoregni che mangiano a Termini il giovedì, i sudamericani in genere con i loro dialetti, i romeni e gli ucraini che riempiono di beni di prima necessità i furgoncini che partono per i loro Paesi, le badanti ucraine che parlano a voce alta al telefono, i maghrebini che spacciano e rovinano il decoro di Piazza Vittorio a Roma, ché da quando ci abitano attori e vip pare sia diventata il Village. I turisti in ciavatte che si ubriacano a Campo de' Fiori, i ragazzetti che vanno in ciavatte a Ostia, gli universitari che vanno a ubriacarsi al Pigneto rovinando le notti della brava gente che ci abita.

Tutti rovinano il quadro. Hai presente quanto sarebbe bella Roma senza tutta questa gente?

Solo che il modello di città in cui uno si sente tranquillo è quello in cui tutto questo rumore di fondo non c'è, ci sono solo festival in cui le culture si contaminano e sono tutti contenti, negri ricchi che comprano negli orridi outlet, zingari ma solo tipo Bregovic o Kusturica, muniti di appositi strumenti musicali etnici e accompagnati da Moniche Bellucci o russi in vacanza che ogni tanto leggi sul giornale che hanno dato a Marina di Pietrasanta una mancia da 1000 euro.

Per gli altri i fogli di via, come li facevano i carabinieri negli anni 60, quando i cinquantenni poveri arrivavano dalle campagne vicine per lavorare nell'edilizia ma erano spesso alcolizzati e venivano interdetti dal territorio di Roma per giorni 30. Molti si accampavano alle porte di Roma in attesa, e poi rientravano, anche prima dei giorni 30. Penso facciano così anche quelli di oggi.

E penso che sia giusto così, perché c'è parecchio di disturbante nella politica che pensa di risolvere le cose con il decoro, le ripuliture e gli editti. Anche Parigi, Berlino, Londra e New York hanno i loro brutti panorami. Magari sono un po' decentrati, ma non vuol dire che non ci siano, come ormai chiunque sa. E allora? Allora appunto è giusto così e non c'è niente da dire,
E la grande polemica su una cosetta civile come lo ius soli la dice lunga su quel che giornali e tv sanno del mondo in cui vivono.

sabato 20 maggio 2017

Cooperazione, sviluppo, migrazioni: 224 mila euro a Palau?

"È peraltro evidente come le problematiche che affliggono la regione rilevino dal punto di vista geopolitico e della sicurezza: i flussi migratori in uscita, il terrorismo e i traffici illeciti contribuiscono a determinare un interesse comune alla promozione di uno sviluppo sostenibile che favorisca la stabilizzazione della regione, oltre che al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Il complesso delle recenti crisi, compresa l’emergenza del 2014 legata all’epidemia di Ebola, sviluppatasi in tre stati dell’Africa occidentale, ha determinato una situazione di potenziale regresso riguardo ai risultati precedentemente raggiunti rispetto ad alcuni degli stessi Obiettivi del Millennio".

Si leggono queste parole nel documento sul prossimo triennio di cooperazione allo sviluppo dell'Italia, documento in queste settimane all'esame della Camera dei Deputati. Nel documento viene spiegato come l'Italia userà le risorse per l'aiuto allo sviluppo.

Il paragrafo che abbiamo citato è relativo alla parte sull'Africa sub-sahariana, quella da cui vengono appunto molti dei migranti degli ultimi mesi. Saggiamente, sembra di capire, si dice: gli aiuti allo sviluppo serviranno anche per governare - non solo con militari e guardie costiere libiche - il flusso di migranti che arriva in Europa.

Fino ad ora come abbiamo "governato"?

L'Agenzia per la cooperazione allo sviluppo da qualche anno si è meritoriamente dotata di uno strumento facile che consente di vedere come vengono utilizzati questi soldi in giro per il mondo.

E andando a vedere i dati si capisce che la frase con cui abbiamo iniziato non è molto coerente con l'utilizzo delle risorse che - come d'altra parte si dice in diverse parti di quel documento - sono più spesso utilizzate tenendo conto della tradizione, dei rapporti consolidati, della "geopolitica", che non si sa bene cosa sia.

Per esempio nel 2015 i fondi complessivi impegnati per la Palestina sono stati oltre 50 milioni di euro, quelli effettivamente erogati quasi 29 milioni. Per poco più di 4 milioni di persone. Gli ultimi palestinesi arrivati in Italia poi risalgono forse agli anni '80, se si escludono quelli provenienti dalla Siria, che però non risiedono certo nei Territori Palestinesi detti Palestina.

Per il Nicaragua, meno di sei milioni di abitanti, sono stati impegnati oltre 7 milioni di euro.

Vanno benissimo, per carità. Il Nicaragua e la Palestina sono due posti mitici della mia giovinezza, ben prima che nascesse Di Battista. Però, per esempio, ci sarebbero altri Paesi forse più cruciali per "le problematiche", come dice il passaggio citato all'inizio.

Per la Nigeria, quasi 180 milioni di abitanti, i soldi impegnati ed erogati sono meno di 650 mila euro.

Per il Ghana non si superano i 4 milioni e mezzo di euro. In compenso per la Somalia i fondi complessivi impegnati superano i 16 milioni di euro.

A Palau, non il paese della Sardegna ma le isole dell'Oceania, arrivano oltre 224 mila euro per una cosa definita "multisettoriale/trasversale" nel sito dell'Agenzia. Palau?

E' un quarto quel che l'Italia destina alla Costa d'Avorio, che però ha 19 milioni di abitanti. Contro i 20 mila, forse, dell'isoletta della Micronesia. Che ci faranno con i nostri 224 mila euro?

Sicuramente il Senegal (ma anche qui probabilmente c'entra la tradizione) è messo meglio (25 milioni di euro impegnati) ma il Niger (poco più di 3 milioni) o il Ciad (meno di un milione) sono Paesi che il nostro ministro dell'Interno incontra, cui promette droni e jeep per "bloccare la rotta sud". Come se bastassero quattro camionette e qualche centinaio di militari che "istruisce" i locali.

La relatrice di questo documento alla Camera è una parlamentare del Pd, Lia Quartapelle, che sicuramente conosce bene l'Africa e che sicuramente capisce che il tema della cooperazione allo sviluppo non può riassumersi in una serie di piccole mance elargite a pioggia. 
L'elenco dei fondi stanziati voce per voce, contenuto nella Relazione 2015, dà un po' questa impressione.

Sarebbe bello leggere dai resoconti del dibattito in Parlamento la eco di una qualche consapevolezza al riguardo. E magari lo sforzo di andare oltre "le problematiche", quando si affrontano i problemi.