martedì 25 agosto 2015

Perché la tassa sulla casa è giusta

Renzi ha detto che abolire Imu e Tasi è giusto, e va fatto per questo, non perché l'ha fatto - e poi disfatto - Berlusconi.

Ha torto. Lo pensano anche diversi esponenti del suo governo e del suo partito, magari lo dicono a mezza bocca.
Ma, direte, il fatto che sono contrari quelli del Pd e del governo non è un solido argomento. Ok.

Allora vediamo gli esperti. Sicuramente è utile rileggere quello che scriveva un mese fa sul Corriere una economista come Lucrezia Reichlin, che poi cita uno studio di un collega che firma il pezzo con lei: non è vero che la riduzione della tassa sulla casa possa avere un effetto sui consumi per la ragione che la crisi del settore e la riduzione dei consumi è iniziata prima della re-introduzione della tassa sulla casa. Diceva che se proprio si vuole alleviare il peso di chi poveraccio è stato costretto dagli eventi a comprarsi una casa, si potrebbe intervenire su quelli che pagano un mutuo. Che sono il 17 per cento dei proprietari.

Ma poiché Renzi probabilmente non arriverà alla fine dell'articolo perché barboso, gli offriamo una riflessione utile. Negli Usa hanno le tasse sulla proprietà immobiliare spesso molto più alte della nostra. E' una vera tassa locale, e dunque cambia. Ma per dire la media in Texas è dell'1,81 per cento. A Roma è dello 0,25 e ci lamentiamo.

Ancora per dire: nella città di Athens, Alabama, proprio adesso stanno votando un referendum in cui il sindaco propone di aumentare dell'1,2 per cento la tassa sulla casa. Vuol dire circa 120 dollari in più all'anno per ogni proprietario di casa del valore di 100 mila dollari. I soldi per costruire una nuova scuola. Sono tre milioni di dollari all'anno. Fassino ci metterebbe la firma, penso.

Il sindaco di Athens si chiama Ronnie Marks, che si pronuncia come Marx (Groucho). Magari perde, dice che i precedenti non sono andati benissimo. Ma io fossi lì, da proprietario di casa, voterei per il sì.


Expo, i numeri a fine agosto

A cosa serve Expo 2015? 

Wired Italia, a pochi giorni dall'apertura di Expo Milano 2015, efficacemente elencava i vantaggi di una Esposizione Universale. Scriveva innanzitutto che serve per attrarre nuovi turisti nel nostro Paese (i famosi cinesi, per esempio). E poi per il nostro commercio (l'alimentazione essendo il tema, il nostro cibo e non solo i nostri ristoranti dovrebbero beneficiarne), la "politica", perché molti Capi di Stato e di governo sarebbero venuti a visitare il sito, e persino "l'etica", visto che il tema di Expo 2015 è anche quello della "sostenibilità".

Per questi ultimi argomenti ci vorrà tempo per capire se è servita davvero o no. 

Per il primo, ovvero quello dei turisti da attirare in Italia, mi sa che per ora non ci siamo.

Oggi Federalberghi ha diffuso una ricerca sui visitatori italiani che sono andati a Milano da maggio ad oggi. Dice la ricerca che dal 1 maggio al 31 agosto prossimo sono stati quasi 9 milioni gli italiani maggiorenni e minorenni che hanno varcato i cancelli di Expo. Dal 1 settembre al 31 ottobre, quando l'Esposizione chiuderà, Federalberghi stima altri sette milioni. In tutto fanno 16 milioni. 
Il presidente della Federalberghi dice subito che sicuramente "i grandi eventi creano grandi numeri" ma anche che "di sicuro non abbiamo adeguatamente promosso con campagne pubblicitarie e la creazione di pacchetti ad hoc una occasione unica per valorizzare col veicolo dell'Expo l'immagine turistica complessiva del Bel Paese". 
Tradotto: a Milano, a vedere i padiglioni, gli stranieri erano abbastanza pochi. 

Qualche giorno fa anche Il Sole 24 Ore dava qualche numero. Agosto è stato un mese di code ai Padiglioni, e tutti erano contenti per i 100 mila ingressi al giorno in media. Anzi: qualcuno diceva addirittura che ci sarebbero state polemiche dei soliti gufi per le mostruose code. 
In ogni caso se si moltiplica la cifra "record" per il numero totale di giorni dell'Expo però si arriva a 18 milioni di visitatori. Sempre meno dei 20 che sarebbero desiderabili per considerare un successo l'operazione Expo. 
Senza contare che il mese di luglio si è chiuso "sottotono", con 2,8 milioni di visitatori.

Ancora numeri: nei primi due mesi, scrive il quotidiano di Confindustria, "almeno un milione di visitatori è da attribuire alle iniziative scolastiche". Non esattamente turisti cinesi. 

Da maggio a luglio il 15% degli ingressi era rappresentato dal solo pubblico serale, quello cioè che entra alle 19 ed esce a mezzanotte per la “movida” dell'Expo, con un biglietto a costo nettamente inferiore (5 euro contro i 30 medi per l’intera giornata)". Insomma: neppure questi cinesi. 

Scrive ancora Il Sole: "Ora si attende il rush finale di autunno. Ufficialmente, a fine luglio, gli ingressi dichiarati dalla società di gestione sono arrivati a 8,6 milioni, mentre i biglietti venduti sfiorano i 9,5 milioni. Con il mese di agosto si dovrebbe dunque arrivare a quota 11,6 milioni. In base alle attese attuali, infine, con i mesi di settembre e di ottobre si dovrebbe arrivare a 19 milioni, cioè molto vicini all’obiettivo dei 20 milioni di visitatori dichiarati dal commissario unico dell’Expo Giuseppe Sala". 

L'obiettivo per la verità neppure corrisponde al pareggio di bilancio per Expo. Ad aprile scorso Sala spiegò che tutta Expo costava 800 milioni, gli sponsor ce ne avevano messi 300 e che per raggiungere il pareggio occorreva vendere 24 milioni di biglietti. Secondo me non ce la fanno. 

Ancora dal Sole: "Ad agosto, contrariamente alle aspettative, sono arrivati tanti italiani: erano attesi per l’autunno, ma molti sono già presenti adesso. Si parla almeno del 60 per cento di visitatori nazionali". 
E i cinesi? "Nel restante 40% di stranieri, si cominciano intanto a vedere i primi cinesi, a cui i tour operator hanno venduto un milione di biglietti ma che per ora non avevano dato segni di vita". I primi cinesi. 

Dunque, il milione di biglietti sbandierato già ad aprile da governo e Commissario sembra tutti o quasi ancora da usare. Magari sono rimasti sul groppone di qualche tour operator e li ritroveremo a settembre con Groupon. Pacchetto Pechino-Milano, visita ad Expo compresa, a 19,90. 


sabato 1 agosto 2015

Vivere e morire in un centro di detenzione australiano

Christmas Island si chiama così perché ci arrivò per la prima volta una nave della Compagnia delle Indie in un Natale della prima metà del 1600.

E' territorio australiano, anche se si trova a più di 3000 chilometri dall'Australia. E' molto più vicina all'Indonesia, in realtà, ed è per questo che navi cariche di immigrati - di clandestini, di migranti, di profughi, chiamateli come volete - arrivano a Christian Island. Da decenni.
Da decenni infatti il governo australiano ha deciso di far diventare quell'isola un centro di accoglienza o di detenzione per immigrati. L'Australia, che sicuramente è più civile dell'Italia, informa anche in tante lingue - compreso il pashtu, il farsi, l'arabo - chi arriva illegalmente sul proprio territorio. Ma anche l'Australia ha i centri di detenzione, e ci tiene i migranti per anni.
Per esempio ieri un richiedente asilo afghano è morto in un centro di detenzione australiano che si chiama Yongah Hill. Si chiamava Mohammad Nasim Najafi. Aveva meno di venticinque anni, ed era arrivato quattro anni fa a Christmas Island in nave.

La sua famiglia era stata uccisa dai Taleban. Pare fosse malato, è morto di un attacco di cuore. Ma soffriva di problemi mentali dopo la morte del padre. L'unico trattamento medico che riceveva nel Centro era quello di avere medicine che lo facevano dormire tutto il giorno, hanno detto i testimoni. Era detenuto da tre anni. Se fosse stato libero probabilmente sarebbe ancora vivo, ha detto Ian Rintoul, della Refugee Action Coalition

Eritrea, perché si scappa da quel Paese

Scrissi questo articolo nell'ottobre del 2013, quando probabilmente l'Eritrea era meno nota di oggi. Anche le polemiche, quando ancora Salvini non era così popolare tra gli ambienti della destra italica, erano uguali a quelle di oggi. L'Eritrea intanto è allo stesso punto di prima. Da lì continuano a scappare.

Succede molto spesso che da un barcone carico di migranti provenienti dall'Africa, quando è in difficoltà, senza benzina, in preda alle onde, o a poche decine di miglia dalla costa italiana, parta una telefonata da un satellitare. Il numero che viene composto è quasi sempre quello di don Mussie Zerai, prete eritreo, Presidente di una agenzia di stampa e di assistenza che si chiama Habeshia, basata a Roma, o, meglio, nella Città del Vaticano. E' “l’angelo dei disperati”, secondo alcuni  o un indisturbato favoreggiatore della immigrazione clandestina, secondo altri
.
In ogni caso Padre Mussie è un eritreo, come almeno 155 dei sopravvissuti dalla strage in mare del 3 ottobre, come molti di quelli che continuano a morire in mare. E Mussie ancora ieri ha denunciato: <<L'ambasciatore eritreo ed i suoi funzionari si aggirano indisturbati a Lampedusa, tra i richiedenti asilo, raccogliendo dati e fotografie per la schedatura dei fuggitivi, senza che nessuna autorità italiana intervenga>>. Secondo il sacerdote cattolico la presenza a Lampedusa di Zemede Tekle, ambasciatore di Eritrea a Roma, mette a repentaglio la sicurezza dei parenti dei rifugiati, rimasti nel loro Paese.

Perché ogni mese, dicono le stime delle Nazioni Unite, 3000 persone lasciano l'Eritrea, spesso via mare. E a volte arrivano più lontano: pochi giorni dopo della strage di Lampedusa, una piccola notizia veniva dalla Svizzera: 11 immigrati eritrei sono stati fermati dalla polizia al confine del Gran San Bernardo. Erano in Italia, in una macchina con targa svizzera, a pochi chilometri dal confine. Guidava uno svizzero di origine eritrea. Alcuni sono riusciti a fuggire, ed hanno tentato di attraversare a pedi il confine; qualcuno ci è riuscito, qualcun altro è stato portato in ospedale.
Perché scappano? E che cosa rischiano, nel loro Paese?

Basta leggere le dichiarazioni del governo di Asmara a proposito del naufragio e della strage del 3 ottobre scorso. Quella strage, ha detto il governo eritreo, è un <<crimine efferato contro il popolo eritreo e il governo>>, nell'ambito di un generalizzato disegno di aggressione a questo Paese. Una <<aggressione contro la sovranità del Popolo eritreo>>, per mezzo di <<sanzioni illegali>> fino alla <<aggressione esplicita>>. E quando queste agfressioni sono fallite, i cospiratori sarebbero passati al <<traffico di uomini>>, allo scopo di <<disintegrare e paralizzare l'indomito popolo e il governo dell'Eritrea>>. Feroci trafficanti di uomini, insomma, perseguirebbero il disegno di indebolire nello spirito e nel corpo il popolo e il governo eritreo. E – chiede il governo di Asmara – occorre <<indagare, da parte di istituzioni indipendenti, e mettere fine a questo fenomeno, assicurando alla giustizia i responsabili>>. La responsabilità primaria ricade sulla <<Amministrazione Usa>>.
Qualche giorno dopo è stato lo stesso Presidente eritreo ad esprimersi, attraverso un portavoce. E le parole erano quasi identiche: la strage è <<un crimine contro gli eritrei, specie i giovani eritrei>>, ha detto Yemane Ghebreab. E' opera di “trafficanti di uomini”, dietro i quali agiscono “potenti forze” , le stesse che conducono da anni una <<guerra contro l'Eritrea, attraverso le sanzioni e l'occupazione illegale del nostro territorio>>.
<<Se i nostri giovani dicono che sono eritrei hanno un trattamento di favore>> da parte dei governi <<nemici>> ha spiegato il Portavoce. Ma dimentica di dire che nessun uomo o donna sotto i 60 anni può avere un passaporto, perché fino a quell'età sono tutti chiamati a fare il servizio militare. E spesso si deve rimanere sotto le armi anche per 5 o 10 anni. 

Nel 2009 Human Right Watch diramò un rapporto dal titolo “Service for life: state repression and indefinite conscription in Eritrea” . Il rapporto descrive come prigionieri politici, religiosi, o semplici obiettori siano torturati. Di decine di prigioneri tenuti in celle sottoterra per mesi o anni. Di altri trattenuti in navi cargo, con temperature non tollerabili. Di frequenti morti in carcere.

Le sanzioni Onu comunque non sono dovute a questo: alla fine del 2009 le Nazioni Unite – su proposta dell'Unione Africana – hanno varato un pacchetto di sanzioni che prevede l'embargo sulla vendita di armi e di equipaggiamenti militari e il congelamento di fondi, azioni e risorse economiche eritree all'estero. Alla base delle sanzioni il sostegno che il governo di Asmara forniva alla opposizione armata al fragile governo somalo e l'occupazione di una zona di confine contesa con il Gibuti. Da allora di sanzioni Onu e di moniti ce ne sono statealtre e il governo di Asmara non ha smesso di sostenere gruppiarmati.

Indipendente dall'Etiopia dal 1993, dopo un referendum che ha avuto il 99 per cento dei sì, l'Eritrea è una delle tante speranze deluse per chi ha sostenuto le lotte di liberazione africane. Il Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo, che aveva ricacciato due anni prima nei propri confini l'esercito etiope, godeva di una certa popolarità anche in Italia. E l'elezione da parte di una assemblea costituente del Presidente Isaias Afewerki, appunto nel 1993, sembrava la premessa per la nascita di un Paese democratico. Da allora però le elezioni non ci sono mai state, e l'Eritrea è sprofondata da anni nella condizione di “prigione a cielo aperto”, per usare la definizione del Press Freedom Index di Reporters senza frontiere. E oggi, e da molti anni, è agli ultimi posti dell'indice della libertà di stampa, insieme alla Corea del Nord e al Turkmenistan. Il governo di liberazione è presto diventato simile a tanti altri regimi nati dalle lotte di liberazione: paranoico, con una politica estera aggressiva, con una particolare tendenza a ripetere gli schemi: In Eritrea ci sono una tv di stato e due radio di stato. I giornali ostili  finiscono in carcere.

Come se non bastasse l'Eritrea è in fondo alla classifica anche per l'indice della Fondazione Mo Ibrahim, che dal 2006 offre un monitoraggio costante sul “buon governo” in Africa. La classifica che ogni anno la Mo Ibrahim Foundation propone “misura” lo Stato di diritto, i diritti umani e la partecipazione, lo sviluppo economico, l'indice di sviluppo umano (sanità, alfabetizzazione, parità tra i sessi). Se può consolare, quest'ultimo dato è quello in cui il Paese è “solo” al ventunesimo posto, su 52. Ilservizio militare femminile aiuta la parità, evidentemente.

Ma complessivamente il posto che viene assegnato all'Eritrea è il numero 50. Dietro ci sono solo la Somalia e la Repubblica Democratica del Congo.
Altro rapporto: l'Eritrea ha drammatici livelli di malnutrizione edenutrizione: con il Burundi e le Comore è tra i paesi con livelli definiti “allarmanti”, secondo i dati diffusi qualche giorno fa, in occasione della giornata mondiale dell'alimentazione 

E per tutto questo – non per un complotto – che i giovani eritrei lasciano il loro Paese e i loro cari, rischiando e spesso perdendo la vita in mare.