lunedì 14 dicembre 2015

Non si vive di solo pane

I panettieri, in guerra contro la grande distribuzione, chiedono una legge per tutelare il "pane fresco". Ma per restare sul mercato il pane non basta più


Oggi un panificio non vive più di solo pane. Davide Trombini è il presidente della Assopanificatori Confesercenti. E' titolare di una serie di panetterie a Ferrara e spiega che “oggi i panifici non fanno più di 50 o 60 chili di pane al giorno. Per stare sul mercato il solo pane non basta più, occorre diversificare l'offerta, cercare grandi clienti, inventarsi qualcosa, cercare di competere”.
Competere con la grande distribuzione organizzata, in primo luogo. “Eh, loro sono bravi, io poi sono in una regione che conosce bene il fenomeno”, dice Trombini. “Ma noi possiamo puntare sulla qualità: il mio gruppo esiste dal 1860 e col tempo ha aumentato la varietà dei prodotti; negli ultimi quindici anni ha dovuto fronteggiare anche una caduta verticale del consumo di pane, sceso a meno di 100 grammi al giorno a persona”.
Claudio Conti, titolare di una panetteria nello storico quartiere romano di Trastevere e leader di Assipan, l'associazione deipanificatori di Confcommercio, conferma: “Quando con la legge Bersani dalla sera alla mattina ci trovammo senza il 'privilegio' della licenza, il nostro modo di lavorare è cambiato del tutto. Con quella norma, mentre ci si toglieva la 'tutela', ci si consentiva invece la somministrazione. Vuol dire che potevamo servire ai nostri  clienti un panino, un pezzo di pizza, un piatto di insalata. Una somministrazione che però deve essere 'non assistita': ovvero niente camerieri, niente piatti veri, niente bicchieri, arredi in linea con il locale. Norme suscettibili di mille interpretazioni. Così io per esempio nel mio esercizio ho messo un tavolo basso, perché deve essere armonico con l'ambiente, ma è un tavolo che non va bene per delle sedie di altezza normale. Non posso usare bicchieri di vetro ma solo materiale a perdere. E ogni panificio che tenti di inventarsi qualcosa vive nel terrore di qualche verbale, di dover fare ricorso”.
Le associazioni di categoria si sono messe insieme ed hannopresentato qualche settimana fa, insieme ad un parlamentare del Pd, GiuseppeRomanini, una proposta di legge sul pane per ovviare ad una “carenzanormativa”. Il problema sarebbe che la grande distribuzione organizzata spaccia per “fresco” un pane che fresco non è: si tratta di pane surgelato poi “dorato” nei forni del punto vendita. “Pane che viene prodotto in Romania o in Cina, a prezzi bassissimi, e rivenduto ingannando il consumatore”, dicono. Che sia in Romania o in Italia conta relativamente, ammette Conti, “anche perché in Romania ci sono anche molte aziende italiane che producono lì i lavorati per il pane perché costa meno. Il problema è che all'arrivo da noi ci siano i controlli, che si tracci il percorso di partite di centinaia di quintali di pasta congelata che arriva nei singoli punti vendita e che noi non sappiamo dopo quanto sarà dorata per essere venduta come pane fresco”.
A leggere bene, per la verità, la grande distribuzione è attenta nel proporre il suo pane. Lidl, per esempio, lo pubblicizza scrivendo “pane caldo a tutte le ore” oppure "sforniamo pane tutto il giorno". Non lo spaccia per “fresco” secondo la definizione della norma a venire. 
Oggi infatti, dicono i promotori della proposta di legge, esistono diverse tecniche per la produzione del pane: accanto a quello tradizionale ottenuto con un impasto di acqua, farina e lievito e con l'aggiunta eventuale di altri ingredienti come l'olio, cotto e venduto nell'arco di poche ore, sul mercato si trova pane ottenuto per completamento di cottura effettuata nel punto vendita, anche a partire da basi congelate.
La proposta di legge mira a definire gli ingredienti, i tipi di lievito, le modalità con cui si fa attività di panificazione, a definire le paste, il tipo di forno eccetera. E impone che il pane fresco e quello “caldo” siano in scomparti diversi. Ma c'è da dire che buona parte della grande distribuzione comunque compra anche pane fresco, dai panifici artigianali e da quelli industriali. I panettieri hanno ancora voglia di fare il loro lavoro? “Io sono la quarta generazione, i miei figli la quinta, ed ho ancora voglia di lavorare e di andare oltre le difficoltà”. Dice Conti. “Certo, vorrei ricordare che le ultime stime indicano il carico fiscale complessivo sulle piccole e medie imprese nel nostro Paese al 64,8 per cento. De che dobbiamo parla'?”.

domenica 29 novembre 2015

La ridicola polemica sull'orario di lavoro

Anche un dibattito importante, come quello che riguarda le riforme della contrattazione, si è trasformato in una contesa ridicola in cui le battute, pure fuori contesto, del povero ministro Poletti hanno dato libero sfogo ad una marea di sciocchezze sul lavoro scritte da chi non ha proprio idea di cosa parla.
Aiutano i numeri, come sempre.
Secondo l'Istat il totale degli occupati nell'industria italiana "in senso stretto" era di oltre 3 milioni e 700 mila persone nel 2014. Quasi 4 milioni di persone che lavorano per conto di 250 mila aziende. Vuol dire che ogni azienda ha in media circa 12 dipendenti.
Nelle costruzioni c'era un altro milione di persone per oltre 200 mila aziende.
Nei trasporti, ristorazione, alloggio, commercio, altri 4 milioni per 643 mila aziende.
Negli altri servizi altri 3 milioni e 800 mila persone per 440 mila aziende.
Il totale dei lavoratori dipendenti in tutti questi settori è di oltre 11 milioni di persone. Il totale delle aziende è 1 milione e 540 mila.
Di queste quasi 1 milione e 400 mila hanno meno di dieci addetti. 

Cosa vi dicono questi numeri? Che la dimensione media delle aziende è piccolissima. La dimensione media di una azienda di costruzioni è di 5 addetti. Di una della industria in senso stretto è di 15, con picchi per la siderurgia e la costruzione di autoveicoli.

Alla luce di questi numeri davvero una persona dotata di un minimo di buon senso può dire che l'orario di lavoro non conta più tanto e che la cosa importante è "il risultato"? Ma che state a dì? Davvero pensate che "essere freelance è ormai la norma, non l'eccezione", come scrive un giornalista del Fatto?

Se in una azienda con cinque dipendenti ognuno lavorasse come vuole, in nome di una specie di libertà di auto-organizzarsi perché il lavoro ormai non è organizzato più come una volta, l'azienda chiuderebbe. Se uno si mettesse con un megafono davanti alla fabbrica a spiegare agli operai che entrano che l'orario di lavoro non è più così importante chiamerebbero la neuro.
Lo so che "per noi giornalisti l'orario di lavoro non ha senso, che un'amico di mio cugino che fa recensioni per un sito web l'altra sera twittava i commenti sui social e allora come lo consideriamo questo lavoro, che orario ha?", ma il tema non è questo, perché se per quel giorno non esce il pezzo sul blog non succede nulla, e neppure se Gramellini si sente male e neppure se io non scrivessi questo post. Persino se non uscisse in edicola La Repubblica per un giorno.

E' che se le commesse di Carrefour o i medici del Policlinico o i dipendenti delle Poste o gli addetti al forno di una fonderia o gli ingegneri che progettano dirigono i lavori sull'autostrada, i poliziotti, i casellanti, chi guida i treni, chi fa funzionare la rete internet, chi lavora in Parlamento, chi manda in onda le tv e le radio di tutto il mondo, se tutti questi non vanno a lavorare all'orario previsto poi è un problema, un problema serio.
Che poi tra parentesi, a proposito di Carrefour, altri giornalisti ci scassano da anni sulla bellezza della città sempre aperta, e ho visto un Carrefour a Ostia aperto h24. Lì l'orario di lavoro conta eccome, no?

Per dire: l'orario di lavoro dei poligrafici che stampano il giornale è una cosa seria, non un feticcio del passato. Magari tra cento anni non servirà più, ma dire che non è quella la misura del lavoro equivale a dire che non è del prezzo della benzina che si deve parlare, che non è quello il problema perché l'automobile è un residuato bellico e tra poco andremo tutti a lavorare con delle macchine volanti a propulsione eolica.
Quando ero regazzino si citava sempre il pezzo degli acerbi Manoscritti economico-filosofici di un filosofo con la barba in base ai quali nella società comunista uno poteva di giorno pescare o cacciare e di sera fare il critico critico senza per questo essere una o l'altra cosa, perché la divisione del lavoro era superata dalla società senza classi. Era un'ottimo programma, basato però sulla dittatura del proletariato. Programma che a me va pure bene. Non so a voi.

lunedì 16 novembre 2015

Come difendersi da chi spara per le strade?

Come ci si difende da chi esce in strada e spara? E' questa, in fondo, la domanda che ci si dovrebbe fare di fronte agli attentati di Parigi. Invece tutti parlano d'altro, stanno attaccati alla televisione, seguono minuto per minuto le notizie su inseguimenti e allarmi cessati; rispolverano quelle tre o quattro cose sull'Islam (non hanno avuto la riforma, principali differenze tra sciiti e sunniti, il ruolo dell'Arabia Saudita che lo sanno tutti finanzia generosamente il terrorismo, la Siria e l'Iran) in attesa di dimenticarsene. 
Quelli che dicono che i morti musulmani sono molti di più. 
Quelli che dicono che nessuno ha pianto per i russi morti su un aereo partito da Sharm El Sheik o per i 40 cittadini di Beirut. 
Quelli che dicono che ci vuole la guerra, quelli che dicono che così si rischia di allevare altro terrorismo, quelli che dicono che è colpa del comunitarismo britannico, chi invece che è colpa dell'assimilazionismo francese, quelli che invece il problema è il welfare generoso del nord Europa, chi invece che sarebbe la povertà che ha creato una generazione di disperati. 
Quelli che uno degli attentatori è passato per la Grecia, quelli che no non era lui gli hanno rubato il passaporto. 
Quelli che non bisogna far entrare i profughi. 
Per esempio negli Stati Uniti la metà degli Stati non vuole accogliere i siriani. 
Per la cronaca, vale la pena di ricordare che solo dal primo di gennaio negli Stati Uniti ci sono stati più di 11 mila morti da armi da fuoco. 
Lo dice il meritevole archivio Gun violence.
Dice: ma mica sono stragi di massa.
Ok: solo le mass shooting hanno fatto dall'inizio dell'anno 291 tra morti e feriti. In America, mica in Iraq. Decine di sbroccati, disperati, convinti di finire in un paradiso qualsiasi, impasticcati, suprematisti o nazisti dell'Illinois, satanisti o semplicemente ubriachi si aggirano armati per le strade. 



Per dire: il 13 novembre a Jacksonville, in Florida (Stato che non vuole i siriani) sono morte 4 persone per mano di un tizio. Che - tra l'altro - era stato arrestato pure due anni fa per un tentativo di strangolamento e poi rilasciato. Per dire. 

Che ci puoi fare, se incontri un tizio così per strada? Bombardi la Florida?

Gli attentatori, pare, si sarebbero tutti fatti esplodere tranne uno, quello sulle cui tracce sarebbe la polizia di mezza Europa, Salah Abdelsam. Io penso che se questo non si è fatto esplodere c'è speranza che non si sia proprio bevuto il cervello, si sarà reso conto all'ultimo momento che la cosa proprio non aveva senso. Che tra ammazzarsi urlando Allah è grande e scappare era meglio scappare. Una cosa che, per come la vedo io, vuol dire speranza. Perché - come dicono nei film - non è finita fino a quando non è finita. 

sabato 14 novembre 2015

"Il primo licenziato con il Jobs Act"

Prima (ieri) Il Messaggero Veneto, poi (oggi) La Repubblica raccontano la vicenda di un operaio della Pigna Evelopes licenziato dopo otto mesi. 
Entrato in azienda il 16 marzo 2015, una settimana dopo l'entrata in vigore del mitico Jobs Act, è stato licenziato pochi giorni fa perché l'azienda ha avuto un calo di lavoro. 
Classico licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. 
Si legge oggi sarebbe colpa della legge votata dal governo Renzi e della sua riforma del lavoro. 
In realtà non è così, perché - come ho già avuto modo di scrivere - i licenziamenti individuali non erano affatto vietati prima di quella legge, e neppure prima della legge Fornero, che aveva modificato alcune parti della dottrina sui licenziamenti.

Per esempio: nel 2013 sono stati licenziati per giustificato motivo oggettivo 720 mila persone, mica una. 720 mila persone come l'operaio di Udine, il cui licenziamento - probabilmente - ci sarebbe stato anche prima. Che il contratto di lavoro a tempo indeterminato fosse una specie di "matrimonio a vita" cui il datore di lavoro era costretto, insomma, era una storia cui poteva credere solo chi non ha nessuna idea di quel che succede nel mondo del lavoro.
Il caso dell'operaio di Udine insomma ci sarebbe stato anche prima. Forse con qualche allungamento dei tempi, con ricorsi e tentativi di allungare i tempi, ma con un esito identico. 

Le differenze sono due. La prima è che per quell'assunzione l'azienda ha beneficiato - grazie alla decontribuzione (che non è nel Jobs Act) di un bell'aiuto economico che non dovrà restituire. 
La seconda è in un difetto di "comunicazione", come dice il giurista Michele Tirabischi: se il governo vende una legge come la fine della precarietà ("la possibilità per le persone di avere una vita" e di fare "progetti") poi non si dovrebbe sorprendere che i giornali raccontino storie come quella dell'operaio della Pigna Envelopes con il titolo "altro che tutele crescenti". 

lunedì 26 ottobre 2015

L'Expo, il Pil, la grande Fiera di paese

Una esposizione universale nell'anno 2015, quando ogni fine settimana si espone qualcosa in qualunque parte del mondo, è una specie di fiera di paese in grande, un luna park, uno spettacolo sostanzialmente inutile per la crescita.
Lo dice pure Dario di Vico
Serve a fare colore, a dare gioia alla gente che fa la fila per entrare in un padiglione che tuttavia non è tanto diverso - anche nei colori - a quelli che vendono gelati e orologi nelle stazioni centrali e negli aeroporti. Per chi - come il commissario Sala - ha visto gli aeroporti del mondo, non c'è probabilmente niente di speciale in Expo. Anche perché la sfida più sfida più importante  non è tanto far arrivare gente ma non far degradare le strutture, trovare il modo di smontarle o di riutilizzarle, sul sito o altrove (il famoso albero della vita), e non perderci.
Come abbiamo già detto altrove Expo 2015 sarebbe andata in pari, ha detto Sala, alla quota di 24 milioni di visitatori paganti. Paganti è un dettaglio importante perché - a parte la quota di persone accreditate nella struttura, che erano lì per lavorare (anche io sono entrato senza pagare, e non sono nessuno) - ci sono stati molti biglietti regalati. Se andavi a dormire a Milano in ottobre ti regalavano l'ingresso. Le compagnie telefoniche ti mandavano inviti ad andare. Se sei giovane, vecchio, disoccupato, se prendi Italo, se viaggi con Trenitalia un modo per andare a fare le tue dodici ore di fila gratis lo avrai trovato.
Dunque, è andata benissimo, poteva andare peggio, i gufi non hanno trionfato però Expo 2015 è in perdita. Oltre a questo però ci sono anche i numeri.
Dicevano tutti che ci si aspettava un milione di cinesi. Beh, stando ai dati del Comune di Milano, diffusi il 6 ottobre,  i numeri non sono proprio incoraggianti. Dice il Comune che "dei 3,8 milioni di turisti giunti a Milano nei primi cinque mesi di Expo, il 46 per cento era italiano e il 54 per cento fatto da stranieri. Di questi, il 12,9 americani, il 9,8 francesi, il 7,7 per cento di cinesi. Due milioni di persone, l'8 per cento è 160 mila. Nei primi cinque mesi. O sono arrivati tutti in queste tre settimane oppure i cinesi non si sono visti.
Si arriverà probabilmente a 21 milioni di visitatori. Ma la maggioranza - la stragrande maggioranza - erano italiani. Come quelli che sono andati l'anno scorso in uno dei tanti outlet della penisola.
I cinque di Mc Arthur Glen hanno fatto uguale 20 milioni di ingressi nel 2014 e non lo ripetono nei convegni internazionali. E sicuramente loro non sono in perdita.

mercoledì 21 ottobre 2015

Legge di Stabilità e clausola migranti, ovvero perché 3 miliardi e 300 milioni sembra una cifra un po' altina

Nella lettera che il ministro dell'Economia Padoan ha inviato a Bruxelles per spiegare alla Commissione europea la legge di Stabilità  c'è un capitolo dedicato al costo che l'Italia sta sostenendo per accogliere i migranti, titolato "Fiscal costs of immigration and rescue operations". E' quella che i giornali chiamano "clausola migranti", ovvero la richiesta alla Ue di poter sforare di altri 3,3 miliardi di euro a causa dei costi che il fenomeno dell'immigrazione ha causato e causerà al bilancio dello Stato italiano.

Scrive Padoan che la parte più significativa di questa spesa ("the most significant share of expenditure") riguarda le strutture di accoglienza e la quantifica nel 50 per cento del totale. Poi le operazioni di recupero e di salvataggio in mare (25-30 per cento) e infine per le cure e la scuola per i migranti che arrivano in Italia.  Senza contare i costi "indiretti e incalcolabili" (indirect, and incalculable, costs are being faced for the overall integration of immigrants into the economic and social fabric of the country).
Cerchiamo di vedere nel dettaglio numeri ed "expenditure" relative.

I migranti ospitati in Italia, secondo i dati forniti dal Viminale, sono in questo momento quasi 100 mila, divisi tra la rete di accoglienza Sprar (Servizio centrale protezione richiedenti asilo e rifugiati), i centri governativi e quelli temporanei. Lo Sprar pubblica dei bandi - uno è attivo proprio in questi giorni - in cui invita a candidarsi per ospitare migranti. Solo in questa fase il bando è per 10 mila posti. I migranti che oggi sono distribuiti tra gli enti locali, in attuazione di oltre 450 progetti, sono oltre 20 mila.

Anche a voler largheggiare, anche a voler considerare la spesa di 50 euro al giorno per ogni migrante (il costo medio come sapete e come ripetono ossessivamente quelli che non vogliono gli immigrati è 35 euro), se moltiplichiamo per 100 mila migranti, siamo a 5 milioni di euro. Per un mese fa 150 milioni, per un anno fa 1 miliardo e 800 milioni. Una cifra molto alta che neppure il governo considera. La conferma arriva da una tabella pubblicata proprio ieri, 21 ottobre, dal ministero dell'Interno in un rapporto sulla accoglienza (qui l'abstract). Dice che la stima del costo totale tra le strutture Sprar, i Cara, i Cda, i Cpsa è di 1 miliardo e 162 milioni.

Siamo dunque molto lontani dai 3 miliardi e 300 milioni di cui parla il governo. Se questa parte, come dice Padoan, è il 50 per cento della spesa, scoprirete che ai 3 miliardi non ci arriveremo mai.
Dice infatti il governo italiano: ma non c'è solo l'accoglienza. C'è la spesa per l'intervento delle nostre forze dell'ordine, per i salvataggi in mare, per la protezione civile, quella che deve sopportare il sistema sanitario e quello scolastico. Queste due voci dovrebbero fare l'altro 50 per cento.
Nel documento inviato alla Commissione Europea il governo italiano giustamente sottolinea che il nostro Paese consente di frequentare la scuola e di terminare gli studi a tutti i minori, indipendentemente dallo status dei genitori. Ma se se guardano i dati dell'anno scolastico 2013-2014 (l'ultimo disponibile) si vede che gli stranieri nelle scuole italiane erano oltre 800 mila, di cui oltre 150 mila di nazionalità romena, oltre 100 mila di nazionalità albanese, oltre 100 mila marocchini, e poi - scendendo nella classifica - cinesi, filippini, moldavi, indiani, ucraini, peruviani, tunisini, dall'Ecuador, dai Balcani, dalla Turchia, perfino dalla Francia o dalla Gran Bretagna.
E soprattutto oltre la metà di quel 51 per cento è di seconda generazione, ovvero è nata in Italia. Quell'anno gli alunni entrati "per la prima volta" a scuola erano il 4,9 per cento del totale. Meno di 40 mila. E di questi occorrerebbe sapere quanti fanno parte della categoria "figli di migranti clandestini".

Ma anche ammettendo una qualche variazione dovuta all'arrivo dei barconi (secondo i dati del ministero dell'Interno nel 2014 sono arrivati oltre 26 mila minori, di cui 14 mila non accompagnati, fino al 10 ottobre 2015 ne erano arrivati altri 16 mila circa) difficile che il numero di alunni stranieri figli di clandestini sia tale da provocare chissà quali spese all'istruzione italiana.

Anche ammettendo un costo standard per studente di 2500 mila euro e anche ammettendo tutti i minori arrivati poi approdati nelle aule scolastiche ad apprezzare la buona scuola, avremmo una spesa di 100 milioni di euro. E sicuramente non è così. Anche perché non sappiamo quanti di questi minori entrino davvero in una scuola e quanti se ne stiano nascosti in attesa di tentare di andare in Germania o in Svezia.

Quanto al sistema sanitario, vale la pena di ricordare che i "clandestini" possono avervi accesso solo per cure definite "essenziali": gravidanza, vaccinazioni, profilassi e cura di malattie infettive,  cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti. In questo caso i medici sono tenuti a non segnalare il "clandestino" alle forze dell'ordine. Non crediamo che i numeri siano tali da spiegare una spesa molto significativa per il nostro sistema sanitario.

Infine, la spesa per protezione civile, polizia, salvataggi. In questo caso, per avere una misura delle cose, facciamo un confronto: il fondo missioni, cioè la dotazione annuale che il Ministero dell'economia ha riservato a tutte le missioni militari italiane all'estero, è di 900 milioni di euro. Forse quest'anno non basteranno, forse serviranno 100 milioni in più. Siamo al miliardo.
Possibile che l'azione di salvataggio e di assistenza quest'anno sia costata molto di più degli oltre 4500 militari italiani impegnati in Afghanistan, nei Balcani, in Libano eccetera eccetera, con relative armi, mezzi, rifornimenti?
Sempre per fare un confronto, l'operazione Mare Nostrum era composta di 700-1000 militari, due corvette, un pattugliatore, alcuni elicotteri. E costava all'Italia - secondo la Fondazione Leone Moressa  - circa 7 milioni di euro al mese, che in un anno fa 84 milioni.
Ancora per fare un esempio, il costo di Triton, secondo la Fondazione Ismu, incideva per circa 2 euro all'anno nelle tasche di ogni italiano. Facile fare il conto: 120 milioni di euro.
Sempre secondo la Fondazione Moressa il costo stimato della operazione Frontex, per la quale 15 Stati dell'Ue hanno offerto mezzi e risorse, è di circa 2,9 milioni di euro al mese. Sembra molto difficile arrivare alle cifre di cui ha parlato il governo.

D'altra parte che al fatto che la Ue ci conceda la clausola migranti non sembrava credere molto il presidente del Consiglio Renzi, almeno a giudicare dalle parole che ha usato in conferenza stampa presentando la manovra.

Una dichiarazione che si spiega forse anche con il fatto che quel numero lo hanno messo un po' a casaccio, tenendosi larghi senza aver fatto bene i conti, come forse è successo anche per altri punti della legge di Stabilità.

martedì 13 ottobre 2015

Federalberghi contro Booking.com: le opinioni a confronto

Nei giorni scorsi la Camera ha approvato la legge annuale sulla concorrenza. Tra gli articoli, uno riguarda gli alberghi e i loro rapporti contrattuali con le piattaforme di prenotazioni online, come Booking.com. Aggiunto al disegno di legge con un emendamento promosso da Tiziano Arlotti, un deputato Pd nato a Rimini ed eletto in Emilia Romagna, dichiara "nullo ogni patto con il quale l’impresa turistico-ricettiva si obbliga a non praticare alla clientela finale, con qualsiasi modalità e qualsiasi strumento, prezzi, termini e ogni altra condizione che siano migliorativi rispetto a quelli praticati dalla stessa impresa per il tramite di soggetti terzi, indipendentemente dalla legge regolatrice del contratto". È la cancellazione del cosidetto parity rate, il vincolo che il portale di prenotazioni online chiede all'albergo: vendo le tue stanze se mi prometti di non venderle a prezzi inferiori.
A votare questa norma una ampia maggioranza traversale che comprende Pd, Scelta Civica, Sel, Forza Italia, Al.

Alessandro Nucara, direttore generale di Federalberghi, che raggruppa oltre 27mila dei 34 alberghi italiani, esulta: "C'è più libertà. Piu libertà per le imprese, che potranno fare il prezzo che riterranno opportuno, per i consumatori, che potranno scegliere e anche per i portali, che potranno liberarsi di questa rendita di posizione di cui hanno usufruito. Dovranno metterci un po' di pepe in più, e quando succede siamo tutti più bravi. La concorrenza fa bene a tutti".
Insomma, secondo Nucara la norma, quando sarà approvata definitivamente (deve passare al Senato), porterà ad un "mercato più efficiente". Se un albergo vende una stanza a 100 euro con il portale online ne incasssa diciamo 85, tolte le commissioni; se la vende a 90 senza portale ne incassa 90 ed il consumatore spende meno. Sembra funzionare.
Andrea D'Amico, regional director di Booking.com per l'Italia, spiega però che la questione della "rendita di posizione" in realtà era già in parte superata: le autorità antitrust di Svezia, Francia e Italia avevano nei mesi scorsi contestato a Booking.com i vincoli sulle offerte tariffarie e Booking.com aveva a quel punto annunciato che avrebbe rinunciato a tutti i vincoli tranne quello sulle vendite online. “La ragione è quasi ovvia: se un cliente trova online su Booking.com un prezzo e poi ne trova uno inferiore sul sito dell'hotel comprerà lì. Booking.com avrà investito risorse e a trarne beneficio sarà l'albergo, senza pagare alcuna commissione”. Per questo l'autoritàAntitrust italiana il 21 aprile scorso, insieme alle autorità svedesi e francesi, annunciava di accettare gli impegni presi da Booking.com, che avrebbe potuto vincolare gli hotel a non praticare tariffe più basse solo sul poprio sito lasciando loro la possibilità di farlo con tutti gli altri sistemi di vendita, dal telefono al front desk agli altri canali online. Insomma: il cliente se vuole può spendere meno. Ma l'albergo, se vuole avere la visibilità che Booking.com garantisce, deve accettare almeno il limite della vendita dal suo sito. “Gli impegni offerti da Booking.com conseguono il giusto equilibrio per i consumatori in Francia, Italia e Svezia, ripristinando la concorrenza e, al contempo, preservando la fruizione semplice e gratuita dei servizi di ricerca e di comparazione, incoraggiando lo sviluppo dell’economia digitale”, scrivevano i presidenti delle tre autorità.
Non bastava? No.
Risponde Nucara che quello dell'Antitrust è stato solo "un primo timido passo. Il mercato si sta spostando online e dire agli alberghi che non potranno vendere sul loro sito mi sembra anche un autogol. Questo è un confronto impari tra un colosso che muove 40 miliardi di euro all'anno e un signore, l'albergo, la singola struttura, che spara con la pistola ad acqua".

Booking.com è certamente un colosso: 10 mila dipendenti di cui 230 in Italia, 700mila strutture alberghiere nel mondo, 90mila solo in Italia. Ma è un colosso che ha portato lo scorso anno 7 milioni di prenotazioni di stranieri, che sono andati a dormire da altrettanti signori con la pistola ad acqua. Investendo milioni di euro in algoritmi e tecnologia, chiedendo agli albergatori una commissione tra il 15 e il 18 per cento ed offrendo in cambio posizionamento, investimenti in decine di siti (dalle compagnie aeree alle società di noleggio auto) traduzioni in 42 lingue, assistenza al cliente 24 ore su 24. L'albergo non paga nulla fino a quando non c'è una prenotazione. "Pochi ricordano che la parità tariffaria è nata per volontà degli albergatori", ricorda D'Amico. "Nel mondo del turismo prima della rete internet c'erano grossisti che compravano stanze da vendere ai tour operator che a loro volta vendevano alle agenzie di viaggio. Allora le commissioni – anche per il numero degli intermediari - arrivavano al 40 per cento, e soprattutto non c'era alcuna trasparenza sui prezzi. La parità costituiva per gli alberghi la certezza che indipendentemente dal canale di vendita, il prezzo sarebbe stato certo".
È anche vero che parliamo di un altro mondo, come dice Nucara: "Prima c'erano due grandi poli: quello intermediato che era collettivo, fatto di viaggi di gruppo; poi c'era il non intermediato che era per il viaggio individuale. Oggi è diverso, l'individuale è molto spesso intermediato dai portali. Se tutto il mercato è intermediato le commissioni dovrebbero scendere, non salire".

Booking.com ha venduto la prima stanza in Italia all'inizio degli anni 2000, dal 2006 ha cominciato ad operare direttamente sul nostro territorio ed ha costruito la sua rete con il metodo tradizionale degli account manager che andavano a visitare l'hotel per proporre l'ingresso nella piattaforma. Quello che ci si potrebbe chiedere è che interesse avrebbe a rimanere in Italia se la legge passasse anche al Senato. Se il viandante russo cerca da dormire a Poggibonsi su internet verosimilmente lo trova su Booking.com o su qualche concorrente. Trovato l'hotel, va sul suo sito e prenota a prezzo più basso. Perché Booking.com dovrebbe spendere soldi per tradurre in russo le pagine su quell'hotel?
Booking.com non ha comunque intenzione di lasciare l'Italia e Federalberghi ci tiene a sottolineare che non si tratta di una guerra alle Ota, online travel agency: “nessuno vuole la morte dei portali, sarebbe sciocco. So che l'albergatore ha visibilità grazie ai portali, che fanno loro mestiere", dice Nucara.
D'Amico dal canto suo ridimensiona qualche titolo esagerato uscito nei giorni scorsi, quando si è letto della "minaccia di Booking.com" che sarebbe stata appunto "pronta" a "lasciare l'Italia". "Saremmo stupidi se dicessimo che domani ce ne andiamo dall'Italia. Chi ha detto che minacciamo di levare le tende ci conosce poco ed ha anche una scarsa conoscenza di un soggetto che opera in un mercato e fa le sue scelte per business, non per affermare una idea. Anzi, vorrei dire alle strutture italiane che noi non chiudiamo con loro anche se non ci dessero la migliore tariffa. Vogliamo confrontarci, discuterne, trovare soluzioni. Ricordando anche - ce lo disse un sondaggio che commissionammo qualche anno fa - che il 72 per cento delle strutture dichiarava di aver aumentato il fatturato grazie alle Ota. Magari potremmo decidere di investire di più in Spagna piuttosto che in Brasile, ma non ce ne andiamo. E ai consumatori dico che manterremo la garanzia della miglior tariffa", che prevede, da parte di Booking.com, il rimborso della differenza se un cliente trova altrove una tariffa migliore.
L'impressione è che la battaglia di Federalberghi sia stata più simbolica (il turismo del Belpaese contro la multinazionale) che di sostanza. Implicitamente lo ammette anche Nucara: "Questa norma non è la panacea, perché - lo dico agli albergatori - se passa la legge l'albergo sarà più libero di fare il prezzo che ritiene ma se vorrà clienti dovrà investire, fare il sito più bello, avere personale più formato, e il portale dovrà offrire altri servizi.".

Di certo la vicenda ha mostrato che la multinazionale olandese Booking.com, di proprietà della multinazionale americana Priceline, non è riuscita ad ottenere più di 4 voti contro i 434 favorevoli all'emendamento. Scarsini nel fare lobbying? "In Italia Federalberghi è molto potente, evidentemente, visto che in materia di concorrenza non vale quello che dice l'Autorità per la concorrenza e il mercato e la Camera vota quello che dice Federalberghi. Noi confidiamo nel Senato", risponde D'Amico. 
Di certo il mercato in Italia ha potenzialità di crescita notevoli. Abbiamo 2 milioni di posti letto nei 24 mila hotel da tre stelle in su, 700 milioni di notti vendibili all'anno e ne vendiamo solo circa 280 milioni.

"Lo scorso anno si è superato il miliardo e 200 milioni di viaggiatori nel mondo", dice D'Amico. "Visto che nei prossimi anni viaggerà un miliardo di persone in più la priorità dovrebbe essere intercettarne in Italia almeno una parte, possibilmente la più danarosa, per essere venali", conclude Nucara.  

domenica 11 ottobre 2015

Morti sul lavoro, per capire bene le cifre

Oggi l'Anmil, associazione mutilati e invalidi sul lavoro, celebrava in tutta Italia la giornata per le vittime degli incidenti sul lavoro. Nel nostro Paese infatti ogni anno ci sono centinaia di morti sul lavoro e centinaia di migliaia di infortuni sul lavoro. La tendenza però è quella di un costante calo dei numeri. Negli anni Sessanta e Settanta si è arrivati a oltre 3000 morti all'anno. Nel 2010 si superavano i 1400 morti e gli oltre 700 mila infortuni. Nel 2013, per esempio, gli infortuni erano poco più di 600 mila e i morti erano meno di 700.
Oggi l'Anmil ha diffuso i dati e la notizia è che i morti sul lavoro dal 1 gennaio alla fine di agosto sono state 752, contro le 652 dello stesso periodo dell'anno scorso. Per questo tutti i siti e gli organi di informazione hanno parlato di una emergenza che non finisce e di "preoccupante inversione di tendenza".
Il fatto è che pochi sanno che i dati sugli infortuni sul lavoro comprendono tutti i morti in occasione di lavoro, compresi gli "infortuni in itinere".
Si tratta di quelle persone morte mentre si recavano al lavoro o tornavano a casa. A questi vanno aggiunti i morti sul lavoro per incidente stradale, ovvero tutti quelli che stavano lavorando e sono morti in un incidente con l'auto o il mezzo su cui viaggiavano.
Nell'anno 2013 per esempio 216 persone sono morte "in occasione di lavoro con mezzo di trasporto", come dice la statistica Inail. Camionisti, ma anche agricoltori investiti da trattori. Non c'è niente da ridere.
Secondo l'Osservatorio Indipendente sui morti sul lavoro di Bologna in 116 agricoltori sono morti schiacciati da un trattore, quest'anno.
Per tornareal 2013, altre 177 persone sono morte "in itinere con mezzo di trasporto", ovvero appunto per un incidente mentre andavano o tornavano dal lavoro. Ce n'erano poi altre 9 morte "in itinere senza mezzo di trasporto", ovvero mentre andavano o tornavano dal lavoro ma non su una macchina. Investiti, insomma.
Per riassumere parliamo di quasi 400 morti sul lavoro che in realtà sono morti per incidente stradale.
Per tornare all'Osservatorio bolognese indipendente - che per capirci contesta i dati Inail giudicandoli sempre troppo bassi, perché i dati considerano solo i lavoratori assicurati Inail, che non sono proprio tutti -  scrive molto chiaramente che i morti sul lavoro fino ad agosto scorso che non fossero su mezzi di trasporto, cioé al lavoro, sono stati secondo l'Inail 343. Dunque gli altri 410 sono in itinere. Per incidente stradale.
Non si vuole sostenere che siano morti meno importanti, ci mancherebbe altro. Sono morti. E comunque continua ad essere gravissimo che centinaia di migliaia di lavoratori subiscano infortuni anche gravissimi lavorando e che centinaia muoiano lavoando.
E' solo per dire che non è detto che ci sia una "inversione di tendenza". Nel 2014 ci sono state 1107 "denunce di infortunio con esito mortale" come dice la fredda statistica dell'Inail. Di questi, 271 erano "in itinere" e 219 erano al lavoro "con mezzo di trasporto. Quasi la metà. Quest'anno sembra che siano più della metà, come abbiamo visto.
Magari alla fine dell'anno scopriremo che gli infortuni sul lavoro anche quest'anno sono scesi un altro po'. Noi comunque lo speriamo, e semmai aspettiamo titoloni sui morti sull'asfalto.

lunedì 28 settembre 2015

"Far politica oggi: i giovani discutono con Ingrao a Torino"

L'Unità ha un bell'archivio online, ci sono proprio le pagine del giornale, se cercate con pazienza trovate pure diverse delle edizioni clandestine degli anni 20, e da lì in avanti fino al 2008.
Comunque, vi faccio omaggio di una sobria cronaca di un incontro che Ingrao fece con i giovani del Pci a Torino.
Caruccio anche perché ad introdurre Ingrao c'era il giovane Giuliano Ferrara, nella sua qualità di presidente dell'Assemblea. Dava la parola a Livia Turco e pure a una cattolica di base che adesso se magnerebbe a mozzichi.
Buona lettura. Era il 28 novembre 1978

"Una riflessione su ciò che avviene: così Pietro Ingrao domenica ha definito il suo discorso al Teatro Carignano, gremito dalla platea all'ultima galleria. E' stata una riflessione appassionata e corale non solo per la partecipazione del pubblico. che ha applaudito spesso e con calore, ma per il modo in cui la riunione era stata concepita dagli organizzatori, la Federazione comunista e la Federazione giovanile. Giuliano Ferrara, che presiedeva l'assemblea aveva dato la parola, prima di Ingrao a quattro giovani, che avevano presentato i problemi delle nuove generazioni — tema della manifestazione — con ottiche diverse: Livia Turco. segretario della FGC torinese, Oliviero Nomis militante del Pdup, Elena Manzione, del Movimento cattolico di base, Claudio Valeri, dirigente dei giovani socialisti".
"In forme diverse un tema è stato al centro dei quattro interventi: la democrazia, il modo di far politica oggi. Il presidente della Camera ha richiamato la esperienza della propria generazione che comprese — per forza di grandi, tragici eventi — come il « privato » non poteva salvarsi senza un impegno pubblico di massa. Per « opporsi ad Hitler, alla sua ideologia totalizzante bisognava essere milioni, nazioni intere ». Anche in quella scelta dunque il « privato » la « soggettività » entrò moltissimo. Ai compagni anziani Ingrao ha detto: stiamo attenti a pensare che i giovani abbiano perso la bussola, non abbiano più una prospettiva: rivalutare la soggettività non è. di per sé. un ripiegamento. Ma i giovani debbono sapere che anche certe ansie, certe infelicità che essi vivono, esistono perché siamo andati avanti, abbiamo combattuto e lottato. Quando Berlinguer a Genova ha detto che i giovani di oggi, con i loro problemi sono figli nostri, ha detto una cosa giusta. Tiriamone le conseguenze — ha esclamato Ingrao — e agiamo verso di loro senza paternalismi. Sul lavoro i giovani oggi non si pongono più solo il problema del salario, ma quello dei fini del proprio operare. ricercano quel rapporto fra prodotto e produttore sul quale x indagava. Ingrao ha ricordato la sconfitta alla Fiat del 1955 e la dura lotta per riconquistare il diritto di organizzazione sul luogo di lavoro. Grandi lotte democratiche si sono combattute, qualcosa in questi anni si è modificato in modo irreversibile. Un modello di sviluppo, quello della Fiat, ancora pochi anni fa indicato come simbolo della modernità, è entrato in crisi; è cresciuta la coscienza operaia sui grandi problemi del Paese, a cominciare da quello del ; rapporti nuovi si sono stabiliti con la cultura e con la scuola, cioè col momento formativo. Una condizione antica di arretratezza si è superata ' con la scolarità di massa. a donna, della condizione femminile, dei rapporti interpersonali, della etica della coppia si parla in a in modo del tutto diverso da pochi decenni or sono. l problema oggi — ha sottolineato o — è l'allargamento della democrazia. l'invenzione di nuovi modi di far politica. la crescita e la capacità delle masse — con al centro la classe operaia — di intervenire nei punti decisivi della vita nazionale. Su questo tema o è tornato rispondendo ieri mattina. nella storica sala del consiglio comunale, al cordiale saluto del sindaco o Novelli. « Nostro compito, al centro dello Stato e nelle assemblee dove sempre più deve decentrarsi il potere, non è solo far buone leggi ma lavorare tutti insieme perchè la vita degli organismi della nostra democrazia sia quella che i cittadini vogliono ». Il sindaco aveva ricordato le vittime del terrorismo, gli uomini della polizia e dei carabinieri, i giornalisti, gli uomini politici, fino all'architetto De Orsola, cattolico attivissimo in quella più recente forma di articolazione democratica che sono i comitati di quartiere".

lunedì 14 settembre 2015

Mariana, perché?

Giuro, ho grande stima per Mariana Mazzucato, ho letto il suo libro sullo Stato imprenditore, l'ho pure intervistata una volta, quando ancora non era famosa. Amo pure Brian Eno. E Varoufakis mi sta simpatico. Ma quando sento di una nuova narrativa economica per l'Europa di cui parlerebbero questi tre mi viene da mettere mano alla pistola, come diceva quello.

sabato 12 settembre 2015

"Dentro la Corte" di Sabino Cassese, diario di uno "straniero" alla Consulta

Sabino Cassese ha pubblicato per il Mulino Dentro la Corte, un suo “diario” da giudice costituzionale.

E' un documento straordinario per un Paese come il nostro dove – come dice lui stesso - “i titolari di cariche pubbliche raramente scrivono libri di memorie o pubblicano i diari delle loro attività”. Eppure – a parte qualche recensione veloce – è come se non fosse stato letto. Eppure quelle pagine contengono annotazioni e riflessioni giuridiche alternate a giudizi “politici” che farebbero la gioia dei retroscenisti dei quotidiani. Quando – nel 2014 - la Consulta discute di unioni civili, per esempio, a Cassese arriva un biglietto con la scritta: “Perché il Papa non è rimasto ad Avignone?”.
Il suo dunque è un vero diario, con annotazioni curiose, persino divertenti, che raccontano la vita quotidiana di un giudice costituzionale, mescolate a riflessioni sulle decisioni prese, sul ruolo della Corte, sul suo funzionamento, sugli altri sistemi (sono moltissime infatti le osservazioni su decisioni delle Corti degli altri Paesi, specie degli Usa e della Germania).

Quel che Cassese fa fin dall'inizio è discutere la consuetudine di eleggere presidente il giudice più anziano, scelta che “significa anche soddisfare l'ambizione di molti di essere per qualche tempo la quarta carica dello Stato e di poter poi fregiarsi del titolo di presidente emerito”. Dunque, osserva nei primi giorni del suo mandato, nel novembre 2005, per distinguersi in quel contesto sarebbe preferibile scegliere “in base al criterio della rarità”.
Confermerà la scelta del “criterio della rarità” in una lettera che invierà ai suoi colleghi il 14 luglio 2014 per chieder loro, in vista della imminente elezione del presidente, di non essere preso in considerazione come candidato ritenendo “inadeguato alle esigenze funzionali e al prestigio stesso della Corte un incarico della durata di tre mesi nominali (di cui uno estivo) che si ridurrebbero a tre giorni effettivi di presidenza del collegio”.

La Corte Costituzionale è nata nel 1956, e da allora si sono succeduti 60 Presidenti. Cassese, che titola uno degli ultimi capitoli del libro Ho partecipato alla nona elezione di un Presidente in nove anni, ricorda che la Costituzione prevede che i Presidenti rimangano in carica tre anni mentre nella sostanza la loro durata in carica è spesso inferiore all'anno. Conosce l'argomento secondo il quale in questo modo si rafforza la “collegialità dell'organo” ma pure non ignora le “critiche costantemente rivolte alle nostre presidenze brevi” che, pur se a volte “infondate”, sono “comunque corrosive e tali da recar danno alla reputazione della Corte”. Le critiche riguardano ad esempio presunti vantaggi pensionistici per chi esce dalla Corte da presidente. Cassese legge la lettera ai suoi colleghi. “La maggioranza della Corte (ma è una minoranza dei componenti) non ascolta”, annota nel suo “diario”.

Conferenziere di successo tra gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, con un passato da scholar alla Stanford Law School e di professore alla Law School della New Yok University oltre che alla Normale di Pisa, una carriera di studioso, insegnante, amministratore pubblico e privato, lettore quasi “bulimico”, appassionato di letteratura ma anche di cinema, Cassese arriva alla Corte Costituzionale e scopre che “l'atmosfera è a metà tra convento e collegio di studenti”; annota nei primi giorni del suo mandato che la Corte “è come un cestino per la carta straccia” dove finiscono questioni importanti e questioni irrilevanti.
Il diario è ricco di annotazioni sui casi che in questi anni hanno occupato le pagine dei giornali, da Previti alla costituzionalità della legge elettorale, dal potere di grazia al caso Englaro, dalle extraordinary renditions alla procreazione assistita, al lodo Alfano, a molti altri; si sofferma su diverse questioni apparentemente minori ma importanti (il caso di una radio e di una legge sugli operatori nazionali merita nel libro un capitoletto intitolato Kiss Kiss); elenca alcuni “temi futili e ridicoli”, come quello della “certificazione dell'Azienda sanitaria per la movimentazione del bestiame per evitare la diffusione della febbre catarrale”.

In Dentro la Corte si apprende anche di “discussioni accese” il giorno che nevicò Roma, perché la neve aveva impedito la presentazione di un ricorso dell'Avvocatura dello Stato che pervenne fuori termine. “L'Avvocatura è un ufficio giudiziario? Lo è la Corte Costituzionale? Non è vero che gli uffici postali erano regolarmente funzionanti?”.
Molti giudici che pongono questioni alla Corte sono definiti “ignoranti” (giudizio attribuito da Cassese al presidente fino al luglio 2006, Annibale Marini).
Quanto al lavoro dei giudici costituzionali, il diario vira sul comico: “Un collega, dopo una 'settimana' di lavoro iniziata il lunedì pomeriggio e terminata la sera di martedì, ripete ironicamente lo slogan degli anni '70: lavoro zero, salario intero”.
Scrive Cassese che anche le udienze pubbliche si rivelano una delusione, sono spesso “inutili”, “un rito in cui nessuno crede”, un “presepe” in cui gli avvocati arrivano impreparati e spesso non fanno neppure domande. Quando poi si esce dal Palazzo e si partecipa a “qualche funzione esterna”, si legge ancora nel Diario, “ci sarebbe da dar ragione a quelli che ritengono la Corte italiana 'Villa Arzilla', una casa di riposo per vecchi”

Quando entra alla Corte Costituzionale Cassese si stupisce che non si raccolgano in modo sistematico le sentenze delle Corti degli altri Paesi. Quando ne esce la Corte accoglie “sistematicamente” le sentenze costituzionali straniere e traduce in inglese le proprie. Altre sue proposte rimangono invece al palo, come alcune misure per “fare risparmi”: “non sono stati fatti e il bilancio non è più sostenibile”.

La sua nomina era stata voluta fortemente da Carlo Azeglio Ciampi e Cassese racconta di averlo “fatto attendere” ma di aver poi accettato anche perché – come dirà ai suoi studenti congedandosi - “le cariche pubbliche, se offerte, non si rifiutano”.
Con qualche compiacimento riproduce in chiusura del volume l'articolo con cui Eugenio Scalfarì raccontò la sua nomina (insieme a Giuseppe Tesauro e Maria Rita Saulle) il 3 novembre del 2005 da parte dell'allora Presidente: tre “tecnici”; si scrisse allora. Scalfari raccontava di un Berlusconi “infuriato” che minacciò di non controfirmare la scelta del Presidente. Ma non lo fece. In Dentro la Corte Cassese scrive anche di sua una visita a Ciampi, che gli confida che sul suo nome Berlusconi non era d'accordo. “Gli ricordo che avevo curato la preparazione, nel 1993-1994, di una legge generale sulla televisione” e che “Berlusconi aveva dichiarato di esser costretto a 'scendere in politica' per difendersi da chi voleva regolare il Far West televisivo”.
Cassese è stato anche giudice relatore, nel 2013, della sentenza che diede torto a Berlusconi sul conflitto di attribuzione sollevato dall'ex Cav nei confronti del Tribunale di Milano. Ma appena terminato il mandato – nel novembre del 2014 – Il Foglio lo ha definito “ilperfetto presidente della Repubblica perché non è “mai diventato un militante dalle tre narici”, non ha mai brandito la Costituzione “come se fosse un'arma da sfasciare sulla testa di qualche outsider malcapitato”.
A Cassese non sfugge che si parli di lui come possibile Capo dello Stato e, probabilmente dopo le elezioni del 2013, titola un capitoletto Parentesi presidenziale.

Dentro la Corte offre questi e molti altri spunti su questioni che rimangono di stringente attualità. Per esempio: in questo mese il Parlamento tenterà per l'ennesima volta di eleggere tre giudici costituzionali. Per il primo dei tre sarà la ventisettesima votazione (Cassese era ancora in carica quando ci fu il primo tentativo, nel maggio 2014). Per gli altri due le fumate nere sono state di meno (quattro per il secondo, due per il terzo). In ogni caso la Corte Costituzionale da mesi lavora a ranghi ridotti, con 12 membri invece che 15.
Cassese, anche di recente, ha criticato il ritardo ma ha anche ricordato che pure in passato “sono verificate attese lunghe per le decisioni parlamentari. La Costituzione non prevede sanzioni. Si potrebbe dire 'imputet sibi', perché così il Parlamento gioca un ruolo , a suo danno”.
Nel libro in compenso più di una volta critica la crescente tendenza anche dei “presidenti ponte” a fare dichiarazioni alla stampa; una tendenza che “risponde alla logica del segnalarsi, del farsi notare come presidenti anche balneari. Il moralismo, in questi casi, è rivolto agli altri, al Parlamento che non elegge due componenti della Corte. Ma da quale pulpito viene la predica? Non sarebbe meglio star zitti?”.
Cassese vorrebbe la dissenting opinion, ovvero la possibilità di rendere pubblico un parere diverso rispetto a quelo adottato dalla Corte. Lo argomenta da tempo, sostenendo anche che non serve una legge perché la Corte cominci a funzionare così, e lo fa in appendice anche in Dentro la Corte. Se la Corte pubblicizzasse il modo in cui si è arrivati ad una certa decisione si arricchirebbe il dibattito invece di procedere, in modo sempre più incerto, sulla strada del “segreto”. Un segreto che magari uno dei tanti presidenti scioglierà appena diventato emerito.


L'ultimo capitoletto si intitola Gute Nacht, come uno dei lieder di Schubert. E con un verso da questo lied, in tedesco e vezzosamente senza traduzione, si chiude il diario. C'è scritto: “Da straniero sono venuto, da straniero me ne vado”. 

sabato 5 settembre 2015

Nomisma dice che abolire la Tasi non serve e non è equo

Abolire la tassa sulla casa è giusto, dice Renzi.
Serve per far risalire i consumi?

No, secondo Nomisma. "Il taglio dell’imposta sulla prima casa genererebbe uno stimolo per il mercato alquanto modesto, che Nomisma ha già quantificato in circa lo 0,11% rispetto al valore medio di acquisto (circa 181mila euro) per il primo anno e comunque inferiore all’1% considerando i valori attualizzati su un orizzonte decennale. Lo sgravio che verrebbe garantito ad oltre i due terzi delle famiglie italiane che vivono in una casa di proprietà risulterebbe in media altrettanto esiguo, stimabile in circa 17 euro al mese". Lo dice un comunicato di Luca Dondi, consigliere delegato di Nomisma.

Dunque la capacità di stimolo è ridicola, direi.

Dato questo, è giusta perché "equa"? Anche qui Nomisma contesta, citando l'indagine sulle famiglie italiane fatta dalla Banca d'Italia.

Basta vedere la tabella dei redditi medi rispetto al titolo di godimento dell'abitazione

Titolo di godimento dell'abitazione e reddito medio

%
Reddito medio annuo (€)
Di proprietà
67,2
35.454
In affitto o subaffitto
21,8
17.766
A riscatto
0,3
28.866
In usufrutto
3,3
26.532
In uso gratuito
7,4
23.229


Se ne deduce che i più ricchi sono i proprietari, i più poveri sono quelli che una casa non ce l'hanno. Che poi non ci voleva la Banca d'Italia, mi sa. 

La seconda tabella - sempre citata da Luca Dondi di Nomisma - spiega in maniera chiara come il rapporto tra il valore di mercato e quello catastale degli immobili italiani sia decisamente da rivedere. Spiega anche che prima di pensare a tagliare le tasse sulla casa occorrerebbe intervenire su questi numeri, sulle sperequazioni che esistono tra le città italiane (e all'interno delle città italiane) su quanto una casa vale rispetto a quanto vale per il fisco, perché è sul valore catastale che si pagano le tasse.
Se si prendono Napoli, Firenze o Palermo, ma anche Roma o Milano, abbiamo un rapporto tra valore di mercato e valore catastale sempre superiore a 2, se non a 3 come nel caso di Palermo.
Insomma, si dovrebbe fare una riforma del catasto decente, prima di pensare a tagliare le tasse sulla casa.


Comune
Numero unità abitative
A/1
A/2
A/3
A/4
A/5
A/6
A/7
A/8
A/9
A/11
Base imponibile media
Valore mercato abitazione usata
Mercato VS Catasto
Bologna
223.141
0,03
8,56
70,74
19,39
0,34
0,03
0,69
0,05
0,17
0,00
135.492
274.519,98
2,03
Firenze
201.831
1,42
42,63
37,82
14,20
2,31
0,02
1,18
0,41
0,02
0,00
135.696
319.884,08
2,36
Genova
326.946
1,28
16,83
58,60
19,81
2,56
0,00
0,76
0,15
0,02
0,00
128.844
222.655,27
1,73
Milano
795.120
0,36
15,81
61,83
18,20
3,29
0,06
0,42
0,01
0,02
0,00
123.714
299.851,96
2,42
Napoli
435.707
0,52
41,25
21,28
25,93
10,25
0,04
0,71
0,02
0,00
0,00
99.573
283.816,64
2,85
Padova
114.912
0,10
70,22
20,55
4,89
0,18
0,02
3,97
0,05
0,00
0,00
162.440
214.903,89
1,32
Palermo
321.810
0,05
35,35
32,89
20,88
4,98
0,14
5,66
0,04
0,00
0,00
60.928
192.775,96
3,16
Roma
1.452.287
0,22
52,89
24,90
13,93
0,79
0,03
7,20
0,03
0,01
0,01
176.317
356.712,56
2,02
Torino
500.569
0,42
20,20
67,20
9,65
1,77
0,01
0,62
0,11
0,00
0,00
130.125
205.338,89
1,58
Venezia
146.026
0,15
19,47
53,19
23,12
2,47
0,01
1,54
0,05
0,00
0,00
110.544
342.583,52
3,10
Verona
136.141
0,03
55,49
37,40
4,49
0,82
0,03
1,70
0,03
0,00
0,00
124.043
212.335,25
1,71

martedì 1 settembre 2015

Lavoro, i gufi e i dati

Non si tratta di fare i gufi. I dati dell'Istat diffusi oggi sono incontrovertibili quanto a numeri, e dunque è inutile dire "sì ma". Gli occupati sono aumentati, i disoccupati diminuiti. Se si va a vedere dentro quei numeri, scomponendoli, si può capire meglio di che tipo di lavori e di lavoratori si parla. Ma il dato è netto.

Certo, il Pd si affida a responsabili economici come Filippo Taddei che dice alla tv de L'Unità che i 235 mila italiani in più al lavoro rappresentano "un balzo che non ha molti precedenti negli anni recenti", e qui uno fatica a non mettersi a ridere. A meno di non intendere per anni recenti l'anno scorso o quello prima, di "balzi senza precedenti" come quello di oggi se ne possono contare anche di molto più significativi, per esempio negli anni 2006-2008. Quando l'economia andava bene anche se non c'erano le riforme del governo Renzi. Che sia quello soprattutto a far aumentare l'occupazione?

Taddei poi avrà visto i grafici e dunque dice che cresce di più l'occupazione a tempo indeterminato rispetto a quella a termine. Ma non dice che diminuisce l'occupazione delle persone con meno di 34 anni, e che ad aumentare è quella degli over 50. Meno male, tornano al lavoro quelli che l'avevano perso, sia chiaro.

Aumentano dopo tanti mesi negativi gli occupati nel settore delle costruzioni. Forse dunque l'abolizione della tassa sulla prima casa non serve per dare una spinta al settore.
Taddei non dice che aumentano gli occupati part time "involontari", ovvero quelli che hanno accettato un lavoro ad orario ridotto pur di lavorare. I lavoratori part time non sono pochi, circa 3 milioni e 300 mila. Oltre il 60 per cento di costoro è "involontario", ovvero preferirebbe un lavoro a tempo pieno.

Insomma: i dati sono positivi, speriamo che proseguano così, ma non si capisce perché uno dovrebbe fare gli inni dicendo viva viva viva il grande Renzi e il suo Jobs Act.

martedì 25 agosto 2015

Perché la tassa sulla casa è giusta

Renzi ha detto che abolire Imu e Tasi è giusto, e va fatto per questo, non perché l'ha fatto - e poi disfatto - Berlusconi.

Ha torto. Lo pensano anche diversi esponenti del suo governo e del suo partito, magari lo dicono a mezza bocca.
Ma, direte, il fatto che sono contrari quelli del Pd e del governo non è un solido argomento. Ok.

Allora vediamo gli esperti. Sicuramente è utile rileggere quello che scriveva un mese fa sul Corriere una economista come Lucrezia Reichlin, che poi cita uno studio di un collega che firma il pezzo con lei: non è vero che la riduzione della tassa sulla casa possa avere un effetto sui consumi per la ragione che la crisi del settore e la riduzione dei consumi è iniziata prima della re-introduzione della tassa sulla casa. Diceva che se proprio si vuole alleviare il peso di chi poveraccio è stato costretto dagli eventi a comprarsi una casa, si potrebbe intervenire su quelli che pagano un mutuo. Che sono il 17 per cento dei proprietari.

Ma poiché Renzi probabilmente non arriverà alla fine dell'articolo perché barboso, gli offriamo una riflessione utile. Negli Usa hanno le tasse sulla proprietà immobiliare spesso molto più alte della nostra. E' una vera tassa locale, e dunque cambia. Ma per dire la media in Texas è dell'1,81 per cento. A Roma è dello 0,25 e ci lamentiamo.

Ancora per dire: nella città di Athens, Alabama, proprio adesso stanno votando un referendum in cui il sindaco propone di aumentare dell'1,2 per cento la tassa sulla casa. Vuol dire circa 120 dollari in più all'anno per ogni proprietario di casa del valore di 100 mila dollari. I soldi per costruire una nuova scuola. Sono tre milioni di dollari all'anno. Fassino ci metterebbe la firma, penso.

Il sindaco di Athens si chiama Ronnie Marks, che si pronuncia come Marx (Groucho). Magari perde, dice che i precedenti non sono andati benissimo. Ma io fossi lì, da proprietario di casa, voterei per il sì.


Expo, i numeri a fine agosto

A cosa serve Expo 2015? 

Wired Italia, a pochi giorni dall'apertura di Expo Milano 2015, efficacemente elencava i vantaggi di una Esposizione Universale. Scriveva innanzitutto che serve per attrarre nuovi turisti nel nostro Paese (i famosi cinesi, per esempio). E poi per il nostro commercio (l'alimentazione essendo il tema, il nostro cibo e non solo i nostri ristoranti dovrebbero beneficiarne), la "politica", perché molti Capi di Stato e di governo sarebbero venuti a visitare il sito, e persino "l'etica", visto che il tema di Expo 2015 è anche quello della "sostenibilità".

Per questi ultimi argomenti ci vorrà tempo per capire se è servita davvero o no. 

Per il primo, ovvero quello dei turisti da attirare in Italia, mi sa che per ora non ci siamo.

Oggi Federalberghi ha diffuso una ricerca sui visitatori italiani che sono andati a Milano da maggio ad oggi. Dice la ricerca che dal 1 maggio al 31 agosto prossimo sono stati quasi 9 milioni gli italiani maggiorenni e minorenni che hanno varcato i cancelli di Expo. Dal 1 settembre al 31 ottobre, quando l'Esposizione chiuderà, Federalberghi stima altri sette milioni. In tutto fanno 16 milioni. 
Il presidente della Federalberghi dice subito che sicuramente "i grandi eventi creano grandi numeri" ma anche che "di sicuro non abbiamo adeguatamente promosso con campagne pubblicitarie e la creazione di pacchetti ad hoc una occasione unica per valorizzare col veicolo dell'Expo l'immagine turistica complessiva del Bel Paese". 
Tradotto: a Milano, a vedere i padiglioni, gli stranieri erano abbastanza pochi. 

Qualche giorno fa anche Il Sole 24 Ore dava qualche numero. Agosto è stato un mese di code ai Padiglioni, e tutti erano contenti per i 100 mila ingressi al giorno in media. Anzi: qualcuno diceva addirittura che ci sarebbero state polemiche dei soliti gufi per le mostruose code. 
In ogni caso se si moltiplica la cifra "record" per il numero totale di giorni dell'Expo però si arriva a 18 milioni di visitatori. Sempre meno dei 20 che sarebbero desiderabili per considerare un successo l'operazione Expo. 
Senza contare che il mese di luglio si è chiuso "sottotono", con 2,8 milioni di visitatori.

Ancora numeri: nei primi due mesi, scrive il quotidiano di Confindustria, "almeno un milione di visitatori è da attribuire alle iniziative scolastiche". Non esattamente turisti cinesi. 

Da maggio a luglio il 15% degli ingressi era rappresentato dal solo pubblico serale, quello cioè che entra alle 19 ed esce a mezzanotte per la “movida” dell'Expo, con un biglietto a costo nettamente inferiore (5 euro contro i 30 medi per l’intera giornata)". Insomma: neppure questi cinesi. 

Scrive ancora Il Sole: "Ora si attende il rush finale di autunno. Ufficialmente, a fine luglio, gli ingressi dichiarati dalla società di gestione sono arrivati a 8,6 milioni, mentre i biglietti venduti sfiorano i 9,5 milioni. Con il mese di agosto si dovrebbe dunque arrivare a quota 11,6 milioni. In base alle attese attuali, infine, con i mesi di settembre e di ottobre si dovrebbe arrivare a 19 milioni, cioè molto vicini all’obiettivo dei 20 milioni di visitatori dichiarati dal commissario unico dell’Expo Giuseppe Sala". 

L'obiettivo per la verità neppure corrisponde al pareggio di bilancio per Expo. Ad aprile scorso Sala spiegò che tutta Expo costava 800 milioni, gli sponsor ce ne avevano messi 300 e che per raggiungere il pareggio occorreva vendere 24 milioni di biglietti. Secondo me non ce la fanno. 

Ancora dal Sole: "Ad agosto, contrariamente alle aspettative, sono arrivati tanti italiani: erano attesi per l’autunno, ma molti sono già presenti adesso. Si parla almeno del 60 per cento di visitatori nazionali". 
E i cinesi? "Nel restante 40% di stranieri, si cominciano intanto a vedere i primi cinesi, a cui i tour operator hanno venduto un milione di biglietti ma che per ora non avevano dato segni di vita". I primi cinesi. 

Dunque, il milione di biglietti sbandierato già ad aprile da governo e Commissario sembra tutti o quasi ancora da usare. Magari sono rimasti sul groppone di qualche tour operator e li ritroveremo a settembre con Groupon. Pacchetto Pechino-Milano, visita ad Expo compresa, a 19,90. 


sabato 1 agosto 2015

Vivere e morire in un centro di detenzione australiano

Christmas Island si chiama così perché ci arrivò per la prima volta una nave della Compagnia delle Indie in un Natale della prima metà del 1600.

E' territorio australiano, anche se si trova a più di 3000 chilometri dall'Australia. E' molto più vicina all'Indonesia, in realtà, ed è per questo che navi cariche di immigrati - di clandestini, di migranti, di profughi, chiamateli come volete - arrivano a Christian Island. Da decenni.
Da decenni infatti il governo australiano ha deciso di far diventare quell'isola un centro di accoglienza o di detenzione per immigrati. L'Australia, che sicuramente è più civile dell'Italia, informa anche in tante lingue - compreso il pashtu, il farsi, l'arabo - chi arriva illegalmente sul proprio territorio. Ma anche l'Australia ha i centri di detenzione, e ci tiene i migranti per anni.
Per esempio ieri un richiedente asilo afghano è morto in un centro di detenzione australiano che si chiama Yongah Hill. Si chiamava Mohammad Nasim Najafi. Aveva meno di venticinque anni, ed era arrivato quattro anni fa a Christmas Island in nave.

La sua famiglia era stata uccisa dai Taleban. Pare fosse malato, è morto di un attacco di cuore. Ma soffriva di problemi mentali dopo la morte del padre. L'unico trattamento medico che riceveva nel Centro era quello di avere medicine che lo facevano dormire tutto il giorno, hanno detto i testimoni. Era detenuto da tre anni. Se fosse stato libero probabilmente sarebbe ancora vivo, ha detto Ian Rintoul, della Refugee Action Coalition