Oggi un panificio non vive più di solo pane. Davide Trombini
è il presidente della Assopanificatori Confesercenti. E' titolare di una serie
di panetterie a Ferrara e spiega che “oggi i panifici non fanno più di 50 o 60
chili di pane al giorno. Per stare sul mercato il solo pane non basta più,
occorre diversificare l'offerta, cercare grandi clienti, inventarsi qualcosa,
cercare di competere”.
Competere con la grande distribuzione organizzata, in primo
luogo. “Eh, loro sono bravi, io poi sono in una regione che conosce bene il
fenomeno”, dice Trombini. “Ma noi possiamo puntare sulla qualità: il mio gruppo
esiste dal 1860 e col tempo ha aumentato la varietà dei prodotti; negli ultimi
quindici anni ha dovuto fronteggiare anche una caduta verticale del consumo di
pane, sceso a meno di 100 grammi al giorno a persona”.
Claudio Conti, titolare di una panetteria nello storico
quartiere romano di Trastevere e leader di Assipan, l'associazione deipanificatori di Confcommercio, conferma: “Quando con la legge Bersani dalla
sera alla mattina ci trovammo senza il 'privilegio' della licenza, il nostro
modo di lavorare è cambiato del tutto. Con quella norma, mentre ci si toglieva
la 'tutela', ci si consentiva invece la somministrazione. Vuol dire che
potevamo servire ai nostri clienti un
panino, un pezzo di pizza, un piatto di insalata. Una somministrazione che però
deve essere 'non assistita': ovvero niente camerieri, niente piatti veri,
niente bicchieri, arredi in linea con il locale. Norme suscettibili di mille
interpretazioni. Così io per esempio nel mio esercizio ho messo un tavolo
basso, perché deve essere armonico con l'ambiente, ma è un tavolo che non va
bene per delle sedie di altezza normale. Non posso usare bicchieri di vetro ma
solo materiale a perdere. E ogni panificio che tenti di inventarsi qualcosa
vive nel terrore di qualche verbale, di dover fare ricorso”.
Le associazioni di categoria si sono messe insieme ed hannopresentato qualche settimana fa, insieme ad un parlamentare del Pd, GiuseppeRomanini, una proposta di legge sul pane per ovviare ad una “carenzanormativa”. Il problema sarebbe che la grande distribuzione organizzata spaccia
per “fresco” un pane che fresco non è: si tratta di pane surgelato poi “dorato”
nei forni del punto vendita. “Pane che viene prodotto in Romania o in Cina, a
prezzi bassissimi, e rivenduto ingannando il consumatore”, dicono. Che sia in
Romania o in Italia conta relativamente, ammette Conti, “anche perché in
Romania ci sono anche molte aziende italiane che producono lì i lavorati per il
pane perché costa meno. Il problema è che all'arrivo da noi ci siano i
controlli, che si tracci il percorso di partite di centinaia di quintali di
pasta congelata che arriva nei singoli punti vendita e che noi non sappiamo
dopo quanto sarà dorata per essere venduta come pane fresco”.
A leggere bene, per la verità, la grande distribuzione è
attenta nel proporre il suo pane. Lidl, per esempio, lo pubblicizza scrivendo
“pane caldo a tutte le ore” oppure "sforniamo pane tutto il giorno". Non lo spaccia per “fresco” secondo la definizione
della norma a venire.
Oggi infatti, dicono i promotori della proposta di legge,
esistono diverse tecniche per la produzione del pane: accanto a quello
tradizionale ottenuto con un impasto di acqua, farina e lievito e con
l'aggiunta eventuale di altri ingredienti come l'olio, cotto e venduto
nell'arco di poche ore, sul mercato si trova pane ottenuto per completamento di
cottura effettuata nel punto vendita, anche a partire da basi congelate.
La proposta di legge mira a definire gli ingredienti, i tipi
di lievito, le modalità con cui si fa attività di panificazione, a definire le
paste, il tipo di forno eccetera. E impone che il pane fresco e quello “caldo”
siano in scomparti diversi. Ma c'è da dire che buona parte della grande
distribuzione comunque compra anche pane fresco, dai panifici artigianali e da
quelli industriali. I panettieri hanno ancora voglia di fare il loro lavoro?
“Io sono la quarta generazione, i miei figli la quinta, ed ho ancora voglia di
lavorare e di andare oltre le difficoltà”. Dice Conti. “Certo, vorrei ricordare
che le ultime stime indicano il carico fiscale complessivo sulle piccole e
medie imprese nel nostro Paese al 64,8 per cento. De che dobbiamo parla'?”.
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