Il riassunto migliore lo fa Jie, ultimo banco a sinistra: “Cos'è
cambiato? In prima avevamo le ore di informatica, adesso non ce le
abbiamo più”. Terza D della scuola media Alberto Manzi di Roma...
La nostra ricognizione, prima di
arrivare nella capitale, parte da Reggio Emilia. E' qui che insegna
il maestro Giuseppe Caliceti, autore del recentissimo “Una scuola
da rifare”. La sua critica alla riforma non potrebbe essere più
radicale. “Prima avevamo la scuola primaria migliore d'Europa”
dice, “oggi è la tredicesima, stando all'Ocse”. A sentir lui il
ministro, tra bugie, mezze verità e cortine fumogene (il grembiule,
il 7 in condotta, etc.), avrebbe preparato il terreno per lo
smantellamento. “Quando dice che gli insegnanti costano troppo non
ricorda che da noi, a differenza degli altri Paesi, anche quelli di
sostegno ricadono sul conto dell'Istruzione. E ciò falsa ogni
confronto. Ha poi tolto soldi alle scuole pubbliche, aumentandoli
alle private, senza però ricordare che, sempre per l'Ocse, in media
i loro studenti sono meno preparati degli altri. Alla faccia del
merito...” Ciò che gli va giù meno di tutto, mentre parliamo in
una libreria così bella e accogliente che sembra di stare in
Scandinavia, è l'aver sperperato un patrimonio ideale, tra i pochi
articoli culturali da esportazione rimasti. E per farmi capire meglio
mi porta in visita a Reggio Children, la matrice di quegli asili
d'eccellenza che nel '91 si erano guadagnati la copertina di Newsweek
sulle “10 scuole migliori del mondo”.
Negli ex-stabilimenti dei
formaggi Locatelli, oltre alle aule di varie classi delle materne, ci
sono mostre e seminari su quella “pedagogia popolare” che
dappertutto ci invidiano. E' un giorno come un altro e in
pellegrinaggio c'è una comitiva di spagnoli e una di rumeni. Ogni
anno passano di qui circa 20 mila persone, “una delle fonti di
turismo più significative della città” ricorda l'organizzatrice
Sara Arrigoni che si inorgoglisce per la collaborazione con Harvard e
si deprime per i più rari rapporti con gli atenei italiani...E' qui
che Caliceti voleva arrivare: “mentre le migliori università
americane vengono a ispirarsi a quel filone che va da Don Milani a
Gianni Rodari a Loris Malaguzzi, che ci hanno insegnato a mettere la
scuola al centro della società e il bambino al centro della scuola,
noi adottiamo il modello anglosasssone, con i test Invalsi, le
crocette, gli insegnanti-manager. Andiamo verso quelle charter
school, private finanziate dal pubblico, che si sono rivelate una
catastrofe per stessa ammissione del sindaco di New York che le aveva
volute. E' una follia! E non dica il governo che tutto l'occidente
taglia perché la scure dell'America di Obama e della Germania della
Merkel si è abbattuta su ogni settore tranne l'istruzione Mentre noi
preferiamo aumentare il bilancio della Difesa. E' sempre una
questione di scelte”...
(Riccardo Staglianò sul “Venerdì”
di Repubblica del 27/5/2011)
* * * * * *
Non si arresta l'offensiva nei
confronti della scuola pubblica italiana. Quello che si sviluppa in
maniera sempre più articolata, scientifica, è un vero e proprio
massacro delle scuole, impoverite di tutto, nel tentativo di
espellere non solo la presenza fisica dei professori, ma la
possibilità e la capacità di continuare a essere luogo dove si
formano i cittadini. Compito affidato alla scuola dalla Costituzione,
che è il vero obiettivo di questo lavorìo di macelleria
scolastica...Si taglia non l'inutile, come ebbe a dire la Gelmini, ma
il necessario. Il pane per crescere...
(Alba Sasso su “Il Manifesto”
del 22/6/2011)
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Aiuti agli atenei privati: un salasso
da 89 milioni. Soldi ai corsi di gattologia.
Il grosso dei fondi per Cattolica,
Bocconi e Luiss. Facoltà-fantasia nelle università statali:
“Scienza e cultura alpina” e “Lingua sarda”.
Ogni contribuente italiano nel suo
piccolo devolve qualcosa alle università non statali. Merito della
legge 243 del 1991 che stabilizza le erogazioni anche per gli atenei
privati...
Il sistema universitario italiano costa
circa 8 miliardi di euro...Il problema è che alcuni atenei spendono
questi denari “sistemando” parenti e affini dei soliti baroni o
creando cattedre come “Igiene e benessere del cane e del gatto”,
“Sociologia del turismo” e “Lingua e letteratura sarda”. O
interi corsi di laurea come “Scienza e cultura alpina”...
Se l'Italia vuole continuare a essere
“grande”, non può continuare a investire in ricerca l'1,1% del
Pil. Le risorse ci sarebbero: basta toglierne un po' a cani e gatti.
(Gian Maria De Francesco su “Il
Giornale” del 21/7/2011)
* * * * * *
Il sistema universitario italiano ha
molti e gravi difetti, non ci sono dubbi. E tuttavia l'immagine
catastrofica di un baraccone vecchio, iniquo, nella maggior parte dei
casi incapace di preparare giovani studiosi competitivi a livello
internazionale, è un'immagine, va ripetuto, distorta e
caricaturale. Del resto, se così fosse, i cervelli in fuga dal
nostro paese, come stormi di rondini impazziti a fine autunno, non
saprebbero davvero dove migrare. E invece il fatto che molti, se non
addirittura la maggior parte, riescano a trovare impiego in
prestigiose università internazionali andrebbe anche letto, una
buona volta, come prova a contrario. E' un dato di fatto: un
sistema malandato come il nostro riesce, nonostante ostacoli, fondi
ridicoli e plurime difficoltà, a formare ancora un numero elevato di
ottimi ricercatori. E non è detto che lo stesso avvenga anche in
quei paesi, tanto ammirati e presi a modello dai liberali nostrani di
ogni colore, dove i nostri cervelli in fuga trovano casa....
Di questo e molto altro ancora discute
un recente saggio di Vincenzo Zeno Zencovich: “Ci vuole poco per fare un'università migliore”(Il Sirente)... In tempi di continua e
feroce autodenigrazione, il libro difende con forza i punti alti
della nostra formazione, della nostra cultura di base, e, più in
generale, del nostro modo di vivere...
Per migliorare l'università servono
piuttosto strategie minimaliste e pragmatiche: potenziare al massimo
quello che già esiste e funziona bene e disincentivare radicalmente,
con procedure mirate, le sacche di abulìa, di malgoverno, di
immobilismo. E poi ci vorebbe uno Stato intelligente, capace di
promuovere e di difendere la nostra ricerca e soprattutto il nostro
patrimonio culturale, immenso, ricchissimo, ma lasciato, come le
rovine di Pompei, alla furia dei venti contrari.
(Daniele Balicco sul supplemento
“Alias” del Manifesto del 16/7/2011)
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Punto primo: la legge Gelmini toglie
autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali
più fitti e pervasivi, riduce gli organi accademici a passacarte,
riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli
atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati
nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di
accesso né le finalità. Almeno portassero soldi...
Punto secondo: smantella il sistema
pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da
corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti
di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci
risiamo con “università” fatte in cortile equiparate alle più
prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori,
anche il mitico Cepu...anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio
è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando
atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e
ricerca...
(Piero Ignazi su “L'Espresso”
del 6/1/2011)
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Il male oscuro delle università
italiane è che sono organizzate su misura dei professori e non degli
studenti. E questo habitus si perpetua. Guardate la riforma Gelmini:
tutto il dibattito è su come riorganizzare la governance che
ridistribuisce il potere interno. Poche parole sui contenuti della
didattica che dovrebbero essere il vero problema.
(Pier Luigi Celli, direttore Luiss,
sul supplemento “Affari & Finanza” di Repubblica del
13/6/2011)
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