giovedì 8 settembre 2011

Pubblica (D)Istruzione Italiana




Il riassunto migliore lo fa Jie, ultimo banco a sinistra: “Cos'è cambiato? In prima avevamo le ore di informatica, adesso non ce le abbiamo più”. Terza D della scuola media Alberto Manzi di Roma...
La nostra ricognizione, prima di arrivare nella capitale, parte da Reggio Emilia. E' qui che insegna il maestro Giuseppe Caliceti, autore del recentissimo “Una scuola da rifare”. La sua critica alla riforma non potrebbe essere più radicale. “Prima avevamo la scuola primaria migliore d'Europa” dice, “oggi è la tredicesima, stando all'Ocse”. A sentir lui il ministro, tra bugie, mezze verità e cortine fumogene (il grembiule, il 7 in condotta, etc.), avrebbe preparato il terreno per lo smantellamento. “Quando dice che gli insegnanti costano troppo non ricorda che da noi, a differenza degli altri Paesi, anche quelli di sostegno ricadono sul conto dell'Istruzione. E ciò falsa ogni confronto. Ha poi tolto soldi alle scuole pubbliche, aumentandoli alle private, senza però ricordare che, sempre per l'Ocse, in media i loro studenti sono meno preparati degli altri. Alla faccia del merito...” Ciò che gli va giù meno di tutto, mentre parliamo in una libreria così bella e accogliente che sembra di stare in Scandinavia, è l'aver sperperato un patrimonio ideale, tra i pochi articoli culturali da esportazione rimasti. E per farmi capire meglio mi porta in visita a Reggio Children, la matrice di quegli asili d'eccellenza che nel '91 si erano guadagnati la copertina di Newsweek sulle “10 scuole migliori del mondo”. 

Negli ex-stabilimenti dei formaggi Locatelli, oltre alle aule di varie classi delle materne, ci sono mostre e seminari su quella “pedagogia popolare” che dappertutto ci invidiano. E' un giorno come un altro e in pellegrinaggio c'è una comitiva di spagnoli e una di rumeni. Ogni anno passano di qui circa 20 mila persone, “una delle fonti di turismo più significative della città” ricorda l'organizzatrice Sara Arrigoni che si inorgoglisce per la collaborazione con Harvard e si deprime per i più rari rapporti con gli atenei italiani...E' qui che Caliceti voleva arrivare: “mentre le migliori università americane vengono a ispirarsi a quel filone che va da Don Milani a Gianni Rodari a Loris Malaguzzi, che ci hanno insegnato a mettere la scuola al centro della società e il bambino al centro della scuola, noi adottiamo il modello anglosasssone, con i test Invalsi, le crocette, gli insegnanti-manager. Andiamo verso quelle charter school, private finanziate dal pubblico, che si sono rivelate una catastrofe per stessa ammissione del sindaco di New York che le aveva volute. E' una follia! E non dica il governo che tutto l'occidente taglia perché la scure dell'America di Obama e della Germania della Merkel si è abbattuta su ogni settore tranne l'istruzione Mentre noi preferiamo aumentare il bilancio della Difesa. E' sempre una questione di scelte”...

(Riccardo Staglianò sul “Venerdì” di Repubblica del 27/5/2011)

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Non si arresta l'offensiva nei confronti della scuola pubblica italiana. Quello che si sviluppa in maniera sempre più articolata, scientifica, è un vero e proprio massacro delle scuole, impoverite di tutto, nel tentativo di espellere non solo la presenza fisica dei professori, ma la possibilità e la capacità di continuare a essere luogo dove si formano i cittadini. Compito affidato alla scuola dalla Costituzione, che è il vero obiettivo di questo lavorìo di macelleria scolastica...Si taglia non l'inutile, come ebbe a dire la Gelmini, ma il necessario. Il pane per crescere...

(Alba Sasso su “Il Manifesto” del 22/6/2011)

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Aiuti agli atenei privati: un salasso da 89 milioni. Soldi ai corsi di gattologia.
Il grosso dei fondi per Cattolica, Bocconi e Luiss. Facoltà-fantasia nelle università statali: “Scienza e cultura alpina” e “Lingua sarda”.
Ogni contribuente italiano nel suo piccolo devolve qualcosa alle università non statali. Merito della legge 243 del 1991 che stabilizza le erogazioni anche per gli atenei privati...
Il sistema universitario italiano costa circa 8 miliardi di euro...Il problema è che alcuni atenei spendono questi denari “sistemando” parenti e affini dei soliti baroni o creando cattedre come “Igiene e benessere del cane e del gatto”, “Sociologia del turismo” e “Lingua e letteratura sarda”. O interi corsi di laurea come “Scienza e cultura alpina”...
Se l'Italia vuole continuare a essere “grande”, non può continuare a investire in ricerca l'1,1% del Pil. Le risorse ci sarebbero: basta toglierne un po' a cani e gatti.

(Gian Maria De Francesco su “Il Giornale” del 21/7/2011)

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Il sistema universitario italiano ha molti e gravi difetti, non ci sono dubbi. E tuttavia l'immagine catastrofica di un baraccone vecchio, iniquo, nella maggior parte dei casi incapace di preparare giovani studiosi competitivi a livello internazionale, è un'immagine, va ripetuto, distorta e caricaturale. Del resto, se così fosse, i cervelli in fuga dal nostro paese, come stormi di rondini impazziti a fine autunno, non saprebbero davvero dove migrare. E invece il fatto che molti, se non addirittura la maggior parte, riescano a trovare impiego in prestigiose università internazionali andrebbe anche letto, una buona volta, come prova a contrario. E' un dato di fatto: un sistema malandato come il nostro riesce, nonostante ostacoli, fondi ridicoli e plurime difficoltà, a formare ancora un numero elevato di ottimi ricercatori. E non è detto che lo stesso avvenga anche in quei paesi, tanto ammirati e presi a modello dai liberali nostrani di ogni colore, dove i nostri cervelli in fuga trovano casa....
Di questo e molto altro ancora discute un recente saggio di Vincenzo Zeno Zencovich: “Ci vuole poco per fare un'università migliore”(Il Sirente)... In tempi di continua e feroce autodenigrazione, il libro difende con forza i punti alti della nostra formazione, della nostra cultura di base, e, più in generale, del nostro modo di vivere...
Per migliorare l'università servono piuttosto strategie minimaliste e pragmatiche: potenziare al massimo quello che già esiste e funziona bene e disincentivare radicalmente, con procedure mirate, le sacche di abulìa, di malgoverno, di immobilismo. E poi ci vorebbe uno Stato intelligente, capace di promuovere e di difendere la nostra ricerca e soprattutto il nostro patrimonio culturale, immenso, ricchissimo, ma lasciato, come le rovine di Pompei, alla furia dei venti contrari.

(Daniele Balicco sul supplemento “Alias” del Manifesto del 16/7/2011)

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Punto primo: la legge Gelmini toglie autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali più fitti e pervasivi, riduce gli organi accademici a passacarte, riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di accesso né le finalità. Almeno portassero soldi...
Punto secondo: smantella il sistema pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci risiamo con “università” fatte in cortile equiparate alle più prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori, anche il mitico Cepu...anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e ricerca...

(Piero Ignazi su “L'Espresso” del 6/1/2011)

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Il male oscuro delle università italiane è che sono organizzate su misura dei professori e non degli studenti. E questo habitus si perpetua. Guardate la riforma Gelmini: tutto il dibattito è su come riorganizzare la governance che ridistribuisce il potere interno. Poche parole sui contenuti della didattica che dovrebbero essere il vero problema.

(Pier Luigi Celli, direttore Luiss, sul supplemento “Affari & Finanza” di Repubblica del 13/6/2011)

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